Camillo e Francesco: i malati

ImmagineAl primo posto nella gerarchia degli esseri si pone l’uomo e più in particolare quello infermo. La pietà verso i sofferenti è in Francesco un sentimento naturale. Prima ancora della conversione si occupa dei poveri e li soccorre sospinto da compassione (Cel.VII, 17, 349). L’istinto però ha le sue preferenze e i suoi rifiuti; se è disposto a soccorrere gli uni è altrettanto pronto ad abbandonare gli altri indipendentemente dalla loro necessità. Francesco sente compassione per i poveri ma prova orrore per i lebbrosi, «ripugnanza istintiva», «grande fastidio e ribrezzo» (2 Cel., 592), tanto da non osare ad avvicinarsi alla loro abitazione e, alla loro presenza, fuggire turandosi il naso (Tre Compagni, 1408).

Ma il capriccio dell’istinto è corretto non appena si fa avanti in lui il messaggio di Cristo. Uno dei primi gesti della sua conversione è il bacio al lebbroso, un’esperienza traumatica che ricorderà perfino nel suo testamento (110). D’allora la figura del lebbroso diventa un assillo della sua vita. La ricorda nelle regole, raccomandandone l’obbligo del soccorso (28). Stabilisce le prime dimore dei suoi frati nei lazzaretti accanto ai malati afflitti da piaghe perché siano soccorsi. Lui stesso si pone in prima fila nelle opere del servizio infermieristico. Bonaventura osserva che «lavava loro (i lebbrosi) i piedi, fasciava le piaghe, toglieva dalle piaghe la marcia e le ripuliva dalla purulenza. Baciava anche, spinto da ammirevole devozione, le loro piaghe incancrenite, lui che sarebbe ben presto diventato il buon samaritano del vangelo» (Leg. Mag.,1045). Coloro che intendono entrare a far parte della sua famiglia vengono inviati negli ospedali dei lebbrosi dove, nell’opera del servizio, avrebbero potuto verificare l’autenticità o meno della loro chiamata «Nobili o no era necessario servissero i lebbrosi e abitassero nelle loro case» (Sp.perf.,1730 e 1658).

Nel servizio deve manifestarsi la gioia di chi si dona «volentieri» e accudisce a tutte le necessità di «buon grado» come frate Giacomo quando tocca le piaghe, le cura e ne muta le bende (Leg. Per. 1569). La regola 6 (30) ricorda ai frati di essere «lieti quando vivono tra persone di poco conto». Soprattutto però al malato ci si avvicina con fede perché in lui è nascosto il Cristo sofferente. Francesco è duro contro chi si regola nella prestazione di soccorso prescindendo dalla fede. «Fratello quado vedi un povero, ti viene messo davanti lo specchio del Signore e della sua Madre povera. Così pure negli infermi sappi vedere le infermità di cui Gesù si è rivestito». Questa presa di posizione non è un episodio isolato, è piuttosto una premessa da cui deriva come logica conseguenza l’atteggiamento abituale di Francesco nei confronti dei sofferenti.

Quando li incontra offre loro tutto quello che ha ricevuto in dono da altri, convinto di doverlo restituire loro «come fosse loro proprietà». Dispensa indumenti, mantelli, tonache, libri e perfino paramenti dell’altare. Non c’è niente di quanto è in suo possesso di cui non sia disposto a privarsi. A Siena cede il proprio mantello e giustificandosi con il confratello che l’accompagna dichiara: «Bisogna che restituiamo il mantello a questo povero perché è suo. Difatti noi l’abbiamo ricevuto in prestito, fino a quando ci sarebbe capitato di trovare qualcuno più povero di noi». Poi vedendo che le sue parole non erano convincenti aggiunge perentoriamente: «il grande Elemosiniere mi accuserà di furto, se non darà quello che porto addosso a chi è più bisognoso».

Il desiderio di essere vicino ai lebbrosi resta ancora vivo quando infermo e piagato dalle stigmate si sente slegato dal mondo. «Ardeva dal desiderio di ritornare a quella sua umiltà degli inizi per servire… ai lebbrosi». E dopo aver dato tutto, ha l’impressione di «aver combinato poco». Intorno a lui fa ressa una schiera di bisognosi: «ciechi e sordi, muti e zoppi, idropici e paralitici, indemoniati e lebbrosi, naufraghi e prigionieri». Tutti «ricevono rimedi ai loro mali».

san-francesco-1Alla luce di queste testimonianze, che potrebbero essere ulteriormente aumentate, riesce facile capire come l’inferno sia entrato nella spiritualità di Francesco, passando poi attraverso la scuola dei Cappuccini in Camillo. L’immagino del crocifisso presente nell’oppresso, la dedizione passionale all’esercizio della misericordia, il pensare che tutto ciò che si ha: facoltà risorse fisiche, beni e tempo, non è proprietà nostra ma di chi ne ha bisogno, sono i temi riproposti da Camillo. Presa coscienza della figura di Francesco e di tutta la spiritualità che ne è seguita, non si può non riconoscerle come una scuola a cui si è ispirata l’opera camilliana.

Anche in Camillo risentiamo che «quello che c’è ed abbiamo è dei poveri» e il rifiuto fa pendere sul nostro capo il giudizio divino: «lontano da me maledetti». «La carità vuol essere fatti di buon animo e cuor generoso» e sotto le spoglie del povero si nasconde Cristo. La vocazione al servizio misericordioso è un dono di cui non si è degni.

C’è un interessante tratto comune che unisce i due fondatori: il codice materno. Francesco, come poi Camillo, vede nel malato il crocifisso e nel contempo la madre. Il particolare balza agli occhi perché ritorna nell’esortazione «Del comportamento dei frati negli eremi», dove questi sono invitati ad un’attenzione materna, nelle due regole rispettivamente non-bollata e bollata e nella Leggenda dei tre compagni, dei quali è detto che «si amavano l’un l’altro con affetto profondo… come farebbe una madre con il suo unico figlio teneramente amato».  Fra Pacifico si rivolge a Francesco chiamandolo «carissima madre» e questo a sua volta ricambia con l’appellativo «mia tenera madre» che usa anche nei confronti di frate Elia e di frate Leone.

Lo stesso codice materno è passato in Camillo che si piega sul malato come una madre sul suo unico figlio. In più di cento testimonianze è sottolineato: «Non ci fu una madre che amasse tanto li suoi figlioli quanto Camillo amava li suoi poveri e cari infermi».

Se però in Francesco la carità è uno dei tanti temi della sua vita si deve riconoscere che in Camillo costituisce l’unico centro di gravitazione di tutta la sua anima. Chi a lui si avvicina deve disporsi a non sentire altro che la predica della carità. «Da me non ascolterete altro che carità».