Emanuele Fanti – La mia prima fine del mondo. Inseguendo Fratel Ettore dei poveri

6I punk, il santo e i santi punk

LA MIA PRIMA FINE DEL MONDO Inseguendo fratel Ettore dei barboni – di Emanuele Fant  (Editrice Monti).

Quella che segue è la prefazione al libro.

di Alessandro Zaccuri

I santi, di solito, sono gente allegra. Ma i libri che raccontano le loro vite hanno spesso un tono severo e serioso, che infonde soggezione anziché entusiasmo e che, nei casi peggiori, evoca un non remoto sentimento di tristezza. Sono le conseguenze dell’equivoco per cui ciò che è serio non può essere anche allegro, mentre per il cristiano vale semmai il principio contrario: proprio perché è seria, e dunque vera, la Buona Notizia fa venir voglia di ridere e sorridere, di battere le mani a tempo e di saltare, ballare, spassarsela come fece Davide davanti all’Arca del Signore.

«Mi piacciono i santi punk», diceva Enrico Brizzi in un’intervista di metà anni Novanta, quando all’autore di Jack Frusciante è uscito da gruppo toccava di impersonare il ruolo del giovane scrittore italiano di riferimento. Brizzi – rivelatosi più tardi un asceta a modo suo, gran camminatore sui sentieri di un personalissimo pellegrinaggio non solo interiore – aveva in mente l’esempio di san Francesco, la cui vera rivoluzione consisteva nell’aver vissuto in pienezza, disobbedendo quanto bastava per riportare la Chiesa alla sua originaria semplicità evangelica. Da qui, appunto, la definizione di “santo punk”, che non sarebbe dispiaciuta all’Emanuele Fant di allora, adolescente alle prese con le inquietudini della sua età.

La vicenda di La mia prima fine del mondo si colloca qualche anno più tardi, nell’ultimo scorcio del fatidico 1999. L’avvio sembra quasi un commento alla famosa intervista di Brizzi: c’è questa combriccola di punk alto-milanesi, cresta d’ordinanza e ambizioni da musicisti maledetti, che cova in segreto una passione per lo Zeffirelli di Fratello sole, sorella luna. Anzi, il loro modello è proprio il Poverello, che si spoglia nudo in piazza, bacia il lebbroso e chiacchiera con il Crocifisso. Roba forte, altro che spaccare chitarre sul palco.

Ma è un’infatuazione astratta, alla quale manca ancora l’elemento centrale dell’avventura cristiana. Che non si accontenta dell’idea, per quanto affascinante possa apparire, e pretende l’incontro con una persona. Il libro di Fant è la cronaca di questo incontro, la persona è fratel Ettore Boschini, l’Ettore dei Poveri di cui Emanuele ha già ripercorso la biografia in un meraviglioso, e giustamente fortunato, spettacolo di marionette. Non gli sarebbe stato difficile, probabilmente, tradurre in prosa la poesia di quel canovaccio, ma qui siamo al cospetto di uno scrittore vero, che non ha mai abbandonato la purezza e la lieta intransigenza di quando componeva testi per la sua band sgangherata. Al posto della biografia di fratel Ettore, il lettore si trova così fra le mani un ritratto indiziario, composto non mettendo in posa il soggetto, ma come spiandolo dalle prospettive più inattese. Emanuele fa finta di raccontare di sé e dei suoi amici, creste comprese, ma in realtà è sempre di fratel Ettore che sta parlando: un uomo di Dio che volentieri si lascia scomporre nelle storie degli altri uomini, preferibilmente derelitti ed eventualmente sbalestrati, com’era appunto Emanuele nel fosco splendore dei suoi vent’anni.

C’è sapienza in tutto questo, una sapienza più teologale che teologica. È l’intuizione suprema per cui la santità non si dimostra in via di principio, ma si sperimenta per via di narrazione. Il nostro autore sa di non poter descrivere fratel Ettore così com’era, perché questo significherebbe consegnarlo a una fissità che è il deprimente opposto del cristiano andarsene per il mondo. Senza meta, in apparenza, perché ogni creatura in cui ci si imbatte porta di su di sé, magari irriconoscibile e sfigurata, una qualche memoria del Creatore da cui proviene.

Ed ecco allora che, tra Seveso e la Stazione Centrale, giganteggia quel povero cristo di Viorel, il mendicante che i praticanti punk pensano di salvare restituendolo a una libertà che è mera illusione e, quindi, colpevole, mortale illusione. Occorre tutta l’umana, cristianissima saggezza di fratel Ettore per smascherare la vacuità di questo gioco delle tre carte e per ricordare come, in fin dei conti, nessun uomo potrà mai essere libero finché sarà schiavo del peccato. Sono parole antiche, d’accordo, ma proprio per questo sono le sole parole su cui sia ancora possibile fare affidamento. Emanuele ha intravisto l’allegria della santità quando ancora era un ragazzo e adesso, che si appresta a varcare la soglia dantesca dei trentacinque anni, ha saputo trovare le parole giuste per restituircela in 99 capitoletti sinceri, scanzonati e allegri, com’è necessario che sia quando ci si trova davanti al mistero e, anziché nascondersi, si va avanti a testa alta, senza più preoccuparsi di quel che può capitare al ciuffo cotonato.

I santi saranno anche punk, ma il buon Dio a certe cose non fa proprio caso, non ci fa caso davvero.