Il tarlo dell’invidia. L’invidioso fa male a se stesso

85acc32191a884aabf4cc065ec9e30f1Tratto da “Missione Salute” Anno XXX – N.1 Gennaio – Febbraio

di padre Luciano Sandrin

Con l’invidia è entrato il male nel mondo. Ce lo ricorda la Bibbia: «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sapienza 2,24). È entrata la morte delle divisioni, la morte che viene augurata al rivale, la morte che tortura e lentamente uccide colui che invidia. Del resto la parola “diavolo” significa proprio “colui che divide”. L’invidia separa e la separazione genera ulteriore invidia. Inizia così un’interessante riflessione di Giovanni Salonia, prete e psicoterapeuta, in un libro, scritto in collaborazione, che tratta questo tema: “i come invidia”.

L’invidia è un’emozione che apre alla conoscenza di sentieri inesplorati del cuore umano, va quindi compresa, elaborata e governata. Qualcuno dice che, a volte, l’invidia può essere positiva, e fa l’esempio della famosa frase di Sant’Agostino: «Se questi e queste, perché non io?». Ma altri rispondono che questa si chiama emulazione. E ricordano che la vera invidia è sempre negativa: nel confronto con ciò che di buono e di bello l’altro possiede, non potendo averlo anch’io, faccio di tutto per distruggere chi lo possiede. E i mezzi che posso usare sono tanti: calunnie, maldicenze, mobbing e altro ancora.

Questo tipo di emozione è un chiaro segno che la persona non ha ancora maturato ed elaborato una sana autostima così da poter accogliere i doni dell’altro senza sentirsi minacciata nella propria identità. E tutto parte dal vedere, che piano piano diventa “in-videre”, il “vedere in negativo” l’altro come estraneo, rivale. O peggio ancora guardarlo con “male-volenza”. L’invidia è una malattia del vedere. Un animo invidioso vedrà in modo rigido e ossessivo solo ciò di cui necessita per mantenere viva la propria invidia: l’invidiato sarà visto come lontano. L’invidia nasce da un vedere che non contempla, non accoglie, non gode del bene dell’altro ma vuole possedere ciò che l’altro ha di buono e se non ci riesce, cerca di eliminare chi lo possiede. È una percezione distorta che costruisce relazioni tossiche e distruttive.

Tutto questo può essere aggravato da ingiustizie vere, o percepite come tali, di cui la vita è piena. Però mentre invidiamo i talenti altrui, non ci accorgiamo dei nostri o li sotterriamo. Visto che non possiamo essere il più bello del reame, che neanche Biancaneve sia riconosciuta e apprezzata come tale. L’invidia di ciò che Abele possedeva ha mosso la mano di Caino, ma lo faceva soffrire anche la gelosia per la preferenza “percepita” di Dio verso il fratello.

Ciò che sostiene l’invidia è la ricerca di felicità o la rabbia per averla perduta. Ma è un errore pensare che si possa essere felici invidiando la felicità altrui. Crediamo di avere imboccato la strada giusta ma alla fine ci troviamo in un vicolo cieco, il navigatore emotivo ci ha portato fuori strada. Sintetizza molto bene Giovanni Salonia: «Non si può essere felici confrontandosi con gli altri o sperando che non ci siano felici sulla terra. Se – paradossalmente – l’invidioso riuscisse ad avere l’oggetto invidiato, non diventerebbe felice perché, nel fondo, lui non invidia l’oggetto in sé ma l’oggetto che fa felice l’altro. Si invidia sempre, in ultima analisi, la felicità dell’altro: se non sono felice io, nessuno deve essere felice». Anche la pubblicità gioca sull’invidia e sulla “bellezza” di essere invidiati come bisogno per confermare il proprio valore, una patinata immagine di sé e la sua “spendibilità” sociale.

Per la Gestalt Therapy, l’approccio psicoterapeutico di cui in nostro Autore è un riconosciuto maestro, l’invidia è un blocco, o un tentativo non sano per evitare un percorso di consapevolezza di sé e un autentico incontro con l’altro. Invece di riconoscere i propri limiti, la persona li evita e si concentra su ciò che vede della felicità altrui. Solo la capacità di riconoscere quello che siamo, limiti compresi, fa scoprire i nostri talenti inesplorati. L’invidioso non accetta il proprio limite.

Tutto è cominciato già nel giardino dell’Eden, quando il serpente ha insinuato “furbescamente” che il non mangiare la mela dell’albero sarebbe stato un divieto arbitrario di Dio e non un limite inerente all’essere creatura. L’invidioso fa del male a se stesso perché non si appropria di ciò che egli stesso ha e non sviluppa. Far fruttificare i talenti che abbiamo ricevuto è il talento segreto e prezioso che, lungo le strade della gratitudine, dell’umiltà, dell’incontro con l’altro, conduce alla nostra unicità e alla nostra pienezza.

Ci ricorda il proverbio che «se l’invidia fosse febbre, tutto il mondo ne avrebbe». Ma se è febbre può essere sintomo di qualcosa che non va dentro di noi, che va riconosciuto e curato.

Luciano Sandrin