La forza della mitezza e dell’amore in Cristo-medico

La forza della mitezza e dell’amore in Cristo-medico Di Giuseppe Cinà, in Camillianum – Libri di storia e spiritualità camilliana – Vari, N.6, 2002, pp.495-512

I Vangeli presentano il Cristo-medico come una delle modalità attraverso le quali egli ha attuato la sua missione di “servizio alla vita” (Gv 10,10). In questa meditazione di carattere teologico si vuol riflettere sull’atteggiamento di mitezza e di amore quale espressione e attuazione di quel servizio: qual è il senso del collegamento tra “mitezza/amore” e servizio alla vita? In fondo si vuol dire che l’atteggiamento mite e amorevole di Gesù Cristo attribuitogli dai vangeli,  è la vita che consente al suo potere salvifico di essere efficacie. Non è semplicemente che l’altro sia guarito dall’atteggiamento in sé, ma in quanto quel modo di sentire di Gesù – i suoi “sentimenti” di cui parla Paolo nell’inno della lettera ai Filippesi (2,5-9) – esprime e trasmette la sua virtù salvifica.

Per introdurci al tema, può essere utile chiederci quale sia la nostra prima reazione dinanzi all’affermazione espressa nel titolo. Sentiamo anche noi che effettivamente gli atteggiamenti di mitezza e di amore sono veicoli di “forza” e di vigore? O non piuttosto, secondo il nostro sentire spontaneo e naturale, la forza risiede in un carattere robusto e solito, non facilmente vulnerabile, dotato quindi anche di aggressività e grinta, come pure della capacità di distacco affettivo dalla realtà, che non si lascia condizionare dalla situazione pietosa e miserevole in cui versa l’altro?

È vero tuttavia che poi una riflessione  più attenta fa superare questo senso di ambivalenza e diviene abbastanza chiaro che la forza autentica postula sia amore che robustezza e energia, esige mitezza e pazienza da un lato, ma anche potenza e vitalità dall’altro, dolcezza dunque e capacità combattiva.

La riflessione che propongo, è inserita nel contesto di un’analisi di comportamenti “violenti” nei confronti della vita, praticati per di più quando la vita umana vive nelle condizioni di maggiore fragilità e vulnerabilità, quale è lo stato del nascituro, della vita infantile, della persona anziana o demente. Ciò che rende singolarmente stridenti condotte del genere, è che questo avvenga ad opera di chi per stato professionale è chiamato a svolgere un compito di servizio e di promozione della vita. È un comportamento non solo immorale, ma anche, se volessimo stare ad un vocabolario che riecheggia quello biblico, stolto e inconsistente, perché una condotta che in effetti sminuisce l’”humanum” che è in noi,  e che rende, se cosi mi è lecito esprimermi, meno “persona” chi l’adotta.

Ci poniamo dunque immediatamente nel contesto d’una visione cristiana dell’uomo, tenendo fermo quanto il Concilio Vaticano II ha ricordato, e cioè che “soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova piena luce il mistero dell’uomo” (GS 22). Gesù Cristo infatti è il Salvatore dell’uomo non solo né in primo luogo per le opere che compie, ma lo è già quanto è “l’uomo perfetto” (GS 22.4). I suoi sentimenti e il suo modo di agire non sono soltanto qualcosa che è proposto alla nostra meditazione, lasciando poi che ognuno scelga tranquillamente di imitarlo o meno: sono effettivamente la sola possibilità che è offerta all’uomo di divenire pienamente se stesso, pena il non raggiungimento della propria verità umana. L’uomo, che lo sappia o meno, è stato creato “in Cristo” e “in vista di Cristo”. Dall’accoglienza o meno di questa realtà dipende il suo destino.

Sarà determinante capire la motivazione che i vangeli vedono all’origine di quell’atteggiamento del giovane maestro di Galilea da loro riconosciuto Messia e Salvatore. Ci chiederemo poi come mai Gesù stesso esplicitamente esiga dal discepolo che “impari da lui” proprio ad essere “mite e umile di cuore” perché possa “trovare ristoro”, serenità e forza interiore. Ma sarà da capire anche perché l’atteggiamento di amorevolezza e di umiltà sia messo in rapporto con la “energia sanante” che proviene da Cristo.

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