14 Luglio 2020 – Messaggio condiviso tra i membri della Famiglia Carismatica Camilliana

SCARICA QUI IL TESTO IN FRANCESE

 Solennità di san Camillo de Lellis – 14 luglio 2020 – Messaggio condiviso tra i membri della Famiglia Carismatica Camilliana

TUTTO CONCORRE AL BENE  PER COLORO CHE AMANO DIO

Così racconta un cronista del 600’:

«Fermatevi! Dove andate?! A Milano c’è la peste!».
Così alcuni contadini della campagna pavese,
nell’inverno del 1594 tentavano di fermare un gruppo di uomini
che cavalcavano verso il Ducato di Milano.
Saputo dello scoppio del contagio, p. Camillo aveva raccolto mezza dozzina dei suoi compagni,
a Genova, ed era partito a spron battuto per portare soccorso.
«È proprio per questo che ci andiamo!», rispose dunque senza rallentare la corsa.

 

In questi giorni, caratterizzati dalle pesanti conseguenze dell’emergenza sanitaria da Covid-19, siamo tutti chiamati a confrontarci e, in certo modo, a riconciliarci profondamente con la nostra umanità. Quando facciamo ricorso a questa parola ‘umanità’, siamo soliti farlo in modo assai solenne e talvolta presuntuoso. Evochiamo questa preziosa parola, in cui ci riconosciamo, per distinguerci dalle altre creature viventi, nel senso di una eccellenza che diamo per scontata e per acquisita. In realtà, questa parola rimanda radicalmente a quell’humus da cui siamo stati tratti e verso cui siamo chiamati a ritornare con serenità, dopo aver percorso, con humilitas, il nostro cammino di umanità.

Accettare le proprie pause

L’esperienza così difficile di dover far fronte ad una pandemia come quella scatenata dal coronavirus si sta rivelando uno choc quasi assordante: non pensavamo di essere anche noi vulnerabili e così tremendamente fragili. Ci eravamo auto convinti di avere conquistato una sostanziale e durevole immunità dalla paura e dal senso così umano di insicurezza.

L’assenza rende più acuta la presenza: la pandemia sta dolorosamente mutando la nostra convivenza con la morte e con il lutto. All’improvviso, ci siamo trovati catapultati in un contesto surreale e sospeso, in cui la morte sta invadendo ogni spazio, pensiero e discussione; soprattutto per il fatto di non poter stare accanto alla persona cara che sta morendo, accompagnarla in modo dignitoso, con la rilevanza enorme che in questi momenti hanno una carezza, un gesto di vicinanza, una parola sussurrata o uno scambio di sguardi.

La pandemia ha cambiato tutto in un attimo. Se prima eravamo abituati a vivere ‘tanto spazio’ in ‘poco tempo’, ci siamo bruscamente ritrovati a vivere in ‘poco spazio’ con ‘tanto tempo’ a disposizione.

In realtà abbiamo cercato di rimandare questo click il più possibile: alcuni di noi, abituati, da sempre, a vivere tutta la propria quotidianità secondo elevati ritmi di attività e di relazione interpersonale anche in comunità, hanno vissuto l’esperienza improvvisa della quarantena, nella propria stanza o in spazi privati. Abbiamo cominciato ad intuire, anche nelle nostre comunità religiose o familiari e professionali, che in una stanza, anche piccola, ci si può sentire isolati o soli a seconda che alla solitudine in cui si vive si riesca a dare dei contenuti umani e spirituali che consentano al nostro cuore di essere aperto, di non perdere la speranza. Stiamo imparando che solitudine ed isolamento non sono la stessa cosa: ci si può sentire soli anche in mezzo ad una grande folla!

Abbiamo imparato a ‘stare distanziati’, ma la solidarietà, la fraternità e la sororità, la comunione tra noi – tra comunità religiose, tra istituti religiosi, a livello ecclesiale e/o civile, – sono state ancora più intense, gioiose, spontanee e genuine: mascherine, guanti, saturimetri e misuratori di temperatura hanno smesso di essere dei semplici seppur necessari DPI (dispositivi di protezione individuale), per convertirsi nel nostro immaginario quotidiano in oggetti di dono e di scambio tra comunità e provincie religiose, simbolo di premura reciproca e di sostegno nella quotidiana battaglia per la cura delle persone più fragili!

La percezione della fragilità

Anche dietro le nostre mascherine, anche con le mani grondanti gel sanificante o inguainate da guanti di lattice, abbiamo cercato non tanto di proteggerci dall’altro, ma di accoglierlo con un surplus di parole cariche di empatia, capaci di lenire incertezze; di asciugare lacrime di paura, di lutto, di speranza; di interpretare sorrisi e sguardi che cercavano la nostra complicità; di intuire la profonda nostalgia di poter abbracciare, di poter stringere, per riaffermare che ‘io, per te, ci sono’, anche se il tocco, la carezza, il saluto non sfioravano un volto o una spalla, ma momentaneamente il desktop di un pc o di un tablet!

Stiamo imparando a ‘dare una nuova forma al tempo’: stiamo digerendo la sfida di passare dalla valanga delle emozioni e delle sensazioni alla pacata degustazione di ogni frammento di vita: abbiamo sostato più a lungo e distesamente in cappella per pregare individualmente o come comunità; ci siamo soffermati più intensamente su una riga particolare di un buon libro; abbiamo trascorso più tempo al telefono, su Skype o su Zoom, con il desiderio di conoscere, di consolare, di fare comunione con il nostro interlocutore, di diventare quasi suo alleato, in un contesto di tremenda e condivisa vulnerabilizzazione, anche se a volte, ci siamo scoperti privi dell’alfabeto più adeguato per narrare e trasmettere ‘gioie e speranze, lutti e angosce’.

Questa vulnerabilità radicale a cui il Covid-19 ci ha esposti, senza tante mediazioni, ci ha lasciato la voglia di curiosare nel grande mistero di cui siamo parte, senza esserne il centro: abbiamo cominciato, ma dovremmo continuare il cammino, a riflettere sulla precarietà della salute e della vita, sulla provvisorietà delle certezze e dei beni acquisiti, sulla realtà o possibilità della mortalità propria o delle persone care o degli altri. Fare introspezione è un’occasione salutare! Il virus ci sta fornendo un bagno di realismo esistenziale e ci rammenta che la tendenza a discriminare può invertirsi rapidamente nel diventare all’improvviso discriminati.

La testimonianza propriamente camilliana

La pandemia mettendo in crisi la diffusa dimenticanza della nostra fragilità fino a nascondere la sofferenza e la morte, ci ha spronato come discepoli del Signore Gesù che credono nella risurrezione del Signore a condividere questa fede con i nostri fratelli e sorelle ammalati, condividendo con loro, le tante morti che dobbiamo attraversare nella vita, come parte integrante della nostra umana avventura.

In una situazione che ci rende consapevoli di essere tutti potenzialmente malati, per noi, animati ed appassionati dal carisma di Camillo de Lellis, l’annuncio della speranza cristiana si fa ancora più urgente e forse persino più udibile dai nostri fratelli e sorelle in umanità.

Siamo stati penalizzati dal fatto che in alcuni contesti di cura o in situazioni di assistenza non abbiamo potuto, per ragioni precauzionali, raggiungere fisicamente i malati: però abbiamo visto, con stupore, che confratelli e consorelle, consacrati, consacrate, volontari, operatori sanitari laici … si sono re-inventati per queste persone malate, ‘familiari’ negli affetti, ‘amici’ nella solidarietà, ‘sacerdoti’ nel conforto della fede, ‘compagni’ nella paura e nella speranza, sacrificando, per settimane, i loro personali affetti, amicizie, famiglie e comunità, fino allo sfinimento delle loro energie fisiche e in diversi casi fino al contagio e alla morte.

L’attualità del quarto voto camilliano – consacrazione al servizio dei malati, sia negli ospedali che in qualunque altro luogo, anche con il rischio della vita – l’abbiamo vista eroicamente vissuta da tanti religiosi ma anche da tanti professionisti laici del mondo sanitario, che l’hanno accolta e reinterpretata all’interno della deontologia stessa della loro professione sanitaria.

In questo momento di fragilizzazione, come camilliani/e siamo chiamati a rendere testimonianza discreta e appassionata della “speranza” (1Pt 3,15) che ci abita e ci anima. Annunciare il Vangelo della vita, della compassione e della cura, comporta la capacità di evangelizzare – e di umanizzare – la sofferenza e la morte.

Condividiamo la fatica e l’angoscia davanti ad una pandemia, che ha messo in crisi non solo la nostra illusione di sicurezza acquistata per sempre, ma anche il nostro modo di vivere la fede e la nostra consacrazione. Il Vangelo ci mostra che il cuore del cuore della rivelazione in Gesù del volto misericordioso del Padre di tutti e creatore di ogni cosa è la compassione.

Con grazia e resilienza

Quello che stiamo vivendo in questo periodo è un’occasione per fare il punto sulla nostra maturazione in umanità, un invito ad accettare il nostro limite personale fino ad onorare quelli che sono i limiti di noi tutti e portarli insieme.

È esattamente l’esperienza di Camillo de Lellis, quando lanciava i suoi primi compagni nella trincea dell’ospedale, dei tuguri domestici o delle grandi epidemie: in opere e parole, maestro di resilienza nella paura, nel timore e nel sacrificio, consapevole che questo atteggiamento genera presenza, abbracciando il rischio, per creare autentica prossimità.

Il quarto voto che identifica in modo contundente la nostra missione diventa vocazione incoercibile a farsi prossimo anche a rischio della vita: una chiamata che anche nell’attuale distanziamento sociale non abolisce la prossimità verso chi è malato e nella prova, ma si fa vicino con ogni altra forma creatività che l’amore materno sa estrarre dal profondo della propria intelligenza che ama e del proprio cuore che pensa.

La pandemia che stiamo attraversando non è un flagello divino, è un segno da leggere con umiltà e da portare con pazienza e compassione. L’emergenza sanitaria, con tutte le sue preoccupazioni ed incognite per la salute è e sarà accompagnata dall’urgenza economica e dall’instabilità sociale: anche questo è e sarà un terreno su cui confrontare il nostro stile di stare dentro la storia, come consacrati.

La sofferenza non lascia mai uguali a sé stessi: o ci rende migliori o ci rende peggiori. La morte di alcuni, la sofferenza di tanti e la paura di tutti sono un segno che ci richiama ad una umile e serena consapevolezza: siamo tutti umani! “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa” (B. Pascal) e che ama: è proprio la sempre più radicale comprensione della nostra umanità, esposta alla precarietà biologica e alla frammentarietà emozionale e relazionale, che ci può più facilmente predisporre – da pari a pari – a riconoscere il medesimo bisogno in ogni altra persona, individuando in essa anche tutte le potenzialità resilienti per rinascere.

È la radicale novità che san Camillo introduce: la società rinascimentale, la cultura umanistica esaltava “l’uomo” come essere eccellente e centro dell’universo. Ma a quale uomo mirava? All’uomo ideale, l’uomo eccezionale, l’uomo geniale, l’artista creativo, lo scopritore di nuovi mondi. In questo mondo culturale il povero senza prestigio e senza potere, per di più malato o malandato, non trovava alcuna considerazione. Camillo, scopre questo uomo, anzi ne va in cerca, scoprendo che costui è un uomo a pari dignità di ogni altro uomo e dopo la sua conversione vorrà servire Dio proprio in questo uomo e dedicandosi a tutto l’uomo nella consapevolezza, anticipatrice della modernità (medicina olistica) che la persona malata entrava in ospedale con tutta sé stessa: il povero porta i suoi quattro stracci ma anche il suo spirito libero e immortale!

E qui la preghiera – nel senso più ampio e variegato – è un’àncora sicura: rivolgendoci all’Altissimo come creature tra creature, ritroviamo la nostra giusta dimensione. Così potremo maturare la capacità di assumere persino la morte senza smettere di amare la vita e di lottare, appassionatamente, perché tutti l’abbiano in abbondanza.

Tutto ciò non è certo facile, ma è all’altezza del nostro essere creati «ad immagine e somiglianza» (Gen 1,26) di Dio. Il nostro limite di creature va accolto, onorato e amato.

Solo in questi termini potremo dire #Andrà tutto bene, perché, con la testimonianza della nostra vita e delle nostre buone opere, comprenderemo più profondamente che “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio” (Rm 8,28).

 

Teniamoci tutti per mano… pur a distanza di almeno un metro, ma solo per il momento!

Roma, 14 Luglio 2020

Il Vicario generale dei Camilliani e i Consultori
La Madre generale delle Figlie di San Camillo e le Consigliere
La Madre generale delle Ministre degli Infermi e le Consigliere
La Madre generale delle Ancelle dell’Incarnazione e le Consigliere
Le Missionarie degli Infermi – Cristo Speranza
La Famiglia Camilliana Laica Internazionale