I Primi Anni

San Camillo de Lellis
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book

Nascita straordinaria

Nel 1574, a ventiquattro anni d’età, Camillo de Lellis, d’origine abruzzese, era un uomo finito.

Nato da una madre molto anziana la domenica di Pentecoste dell’anno Santo 1550, era un bambino normale – anzi, molto più robusto e più alto del normale (da grande sopravanzerà quasi tutti dalla testa in su) – ma la madre aveva anche il cuore rattristato a causa di qualche triste premonizione.

Di fatto, nessuno riuscì ad educarlo. A solo tredici anni, piccolo ribelle irriducibile, iniziò ad accompagnare il padre da un presidio militare all’altro, assimilando da lui una passione distruttiva per il gioco dei dadi e delle carte, e, dall’ambiente un atteggiamento da bravaccio involgarito.

Soldato di ventura

Per alcuni anni visse la vita del soldato di ventura, giocandosi la vita nelle battaglie, nelle risse, per potersi poi giocare i soldi così guadagnati.

Nel 1574 scampò ad un naufragio e, sceso a terra a Napoli, fu preso da una tale frenesia per il gioco che il “perdersi anche la camicia” non fu un modo di dire.

Finì randagio come un cane, vagabondando senza meta, con vergogna, elemosinando davanti alle chiese con “infinito rossore”. Alla fine dovette adattarsi a lavorare per la costruzione di un convento di cappuccini conducendo due giumenti carichi di pietre, calce e acqua per i muratori.

La svolta decisiva

Ma la vicinanza di quei frati, appena riformati e ancora nel loro pieno fervore, non gli era indifferente.

Durante un viaggio al convento di S. Giovanni Rotondo, era l’anno Santo 1575, incontrò un frate che se lo prese in disparte per dirgli:

“Dio è tutto. Il resto è nulla. Bisogna salvare l’anima che non muore…”. Nel lungo viaggio di ritorno, tra gli anfratti del Gargano, Camillo meditava.

Ad un tratto scese di sella, si buttò a terra piangendo:

“Signore, ho peccato. Perdona a questo gran peccatore! Me infelice che per tanti anni non ti ho conosciuto e non ti ho amato. Signore, dammi tempo per piangere a lungo i miei peccati”.

Chiese di diventare cappuccino, ma venne dimesso dal convento, per una piaga che non cessava di suppurare.

Con gli “Incurabili”

Con rinnovato spirito, Camillo tornò a quell’ospedale a cui la malattia sembrava incatenarlo, l’Ospedale romano di S. Giacomo, dove si trattavano appunto le più orribili malattie e dove – nel passato – vi si era perfino impiegato per curare gli altri malati, guadagnandosi così di che vivere.

All’ospedale degli “Incurabili” giungevano i malati più ripugnanti, i rifiuti della società, spesso orribili a vedersi, che venivano addirittura scaricati sulla porta dell’edificio.

Continua  – L’assistenza sanitaria

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