I Camilliani a Pavia dal 1693 al servizio dei malati

A cura di Felice de Miranda M.I., I Camilliani a Pavia dal 1693 al servizio dei malati, Edizioni CDG, 2019

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Prefazione di p. Mario Bizzotto, M.I.

Non può non essere edificante gettare uno sguardo nel passato. È un modo di colmare il presente riempendone il vuoto. Cosa sarebbe il presente senza il passato? Non perderebbe il suo senso? A questa domanda risponde l’iniziativa di padre De Miranda che ha avuto la felice idea di raccogliere in sintesi l’attività dei padri camilliani nell’ospedale S. Matteo di Pavia. Ci fa ripassare una storia che parte dal lontano 1693 e si prolunga fino al 1810, quando in seguito alle leggi napoleoniche i religiosi camilliani furono costretti ad abbandonare il loro ministero al servizio dei malati nella città di Pavia.

L’ideale di S. Camillo trova discepoli che si susseguono come anelli d’una catena. Viene così formandosi una lunga tradizione che sarebbe ingrato lasciarla cadere nella dimenticanza, anzi sarebbe un tradimento della propria identità. Il pensatore ebreo Adorno ha definito la dimenticanza diabolica, identificandola con satana. C’è anche un dovere di memoria, tradendo il quale ci si rende responsabili d’una colpa. Nella sacra Scrittura ricorre ripetutamente il monito che vale come un comandamento: ricordati di tuo padre e tua madre, ricordati di santificare le feste…

Il curatore di quest’opera p. De Miranda nota che il suo lavoro è destinato ai cittadini di Pavia. Di fatto però interessa precipuamente i camilliani. In fondo si tratta d’una storia che appartiene alla nostra famiglia, alla “pianticella” che a dire di S. Camillo si sarebbe dilatata. Ha messo radici anche a Pavia. Non ci sono state imprese particolari, che poi non erano neppure necessarie, dal momento che l’assistenza ai malati passa attraverso piccoli sentieri, gesti inappariscenti, parole di incoraggiamento, strette di mano cordiali, scambi di sentimenti. Rifugge perciò da esternazioni stupefacenti. Si compie in rapporti interpersonali, è perciò di natura sua dimessa, feriale, disadorna, esplicitandosi nel contatto con il singolo e nell’incontro con l’individuo, dove è possibile ascoltare confidenze, storie personali, racconti autobiografici per lo più segnati da eventi tristi.

Il cappellano ospedaliero ha un ruolo che non lo espone all’attenzione. Si svolge nelle corsie sepolto nel nascondimento. La sua è una vocazione alla solidarietà e nel contempo ad una condizione umile. Non c’è altra maniera di accostare il malato se non accettando anche di essere ignorati. Si dice giustamente che di per sé non esiste la malattia, ma i malati. Essenziale è l’incontro, che non può essere generico.

Dostoevskij parla d’un medico che amava l’umanità, ma non amava i singoli uomini. Se così, amava un’idea staccata dalla realtà. Il suo amore restava sterile, chiuso nella mente, un amore astratto senza mani, senza volti e senza piedi che camminano per terra e, cosa ancora più grave, senza quel sentimento di pietà che ci si aspetta da un operatore sanitario. L’attività caritativa si nutre certo di ideali ma ha bisogno soprattutto di interventi operativi, fatti con un po’ di cuore. Così insegna S. Camillo che stimola alla pratica ma nel contempo a metterci l’anima: “fratello più anima in quelle mani!” Al malato o si dona qualcosa del proprio cuore o non si dona niente. A lui si arriva aprendo l’anima. S. Camillo osserva che l’infermo va avvicinato con l’intero nostro essere, non solo con le mani, ma anche con gli occhi per vedere che “non manchi all’infermo cosa alcuna”, con gli orecchi “aperti per intendere i comandi e i desideri “, con la lingua per spronare alla fiducia, con “la mente e il cuore per pregare Dio”. Camillo è detto “serafico” perché con il suo amore vola in alto, ma i piedi lo tengono legato alla terra. È un serafico che parla del berretto per coprire il capo del malato, dell’acqua calda per pulire il volto nelle stagioni fredde, di sciacquare la bocca, pulire la lingua, tagliare le unghie, procurare calze, zoccoli, zimarre.

Camillo è un serafico dai guanti d’oro della carità, un serafico che passa per le corsie tenendo in una mano un boccale e nell’altra una paletta.

In tutto questo non si scopre niente di imponente. Si è così immersi nella realtà del quotidiano da passare inosservati. Non si ha paura di ciò che può apparire banale. Si accetta di non essere importanti, di vivere in una realtà poco eroica, eppure altamente benefica, dedicata al conforto. I nostri padri a Pavia si sono segnalati come fedeli continuatori del loro fondatore. A loro merito non si segnalano imprese particolari e d’altra parte non c’è da aspettarsi niente di diverso della loro vocazione vicina ai sofferenti. Importante è che la loro presenza nell’ospedale S. Matteo sia trascorsa infondendo conforto e manifestando solidarietà.

Protagonista nell’ospedale è il malato. Intorno a lui ruota tutto il mondo assistenziale: infermieri, medici, suore, assistenti religiosi e altro personale addetto a servizi collaterali. Nell’attività religiosa si è sempre distinta la persona del Vescovo, che non solo si prestava alle celebrazioni liturgiche, ma soprattutto ci teneva a visitare i malati. Particolarmente preziosa ai fini della sensibilizzazione religiosa è stata la presenza delle suore della Provvidenza, con le quali i padri hanno sempre avuto rapporti di intesa e affiatamento. Si sono affermati per impegno e dedizione gruppi laicali, organizzati nell’Associazione ACOS. A loro il merito di aver promosso corsi di bioetica e d’aver contribuito alla formazione etica e religiosa degli infermieri/e professionali. Anche le parrocchie della città si sono fatte vive. Nelle strutture ospedaliere non manca il lavoro, tanto più efficace quanto più è promosso e sostenuto in modo corale.