Il volto del Dio debole. Una riflessione filosfica

Mario Bizzotto in Camillianum – Libri di storia e spiritualità camilliana – Vari, N.18, 2006 pp. 565-585

L’attributo del Dio debole si collega precipuamente a due problemi, che assillano da sempre la teologia. Il primo è espresso dalla domanda: come è possibile parlare di Dio, se è l’infinitamente incomprensibile. Il secondo è imposto dalla presenza del male. Come conciliare la sofferenza umana con la bontà e l’onnipotenza divina?

Solo il Dio debole è esprimibile

Il linguaggio è potere. Tradurre in concetti un contenuto significa stabilire un dominio sullo stesso. Segue che parlare di Dio comporta l’affermazione d0un certo potere su di lui. Si capisce il timor et tremor che il credente della Bibbia prova nel nominare Dio. Si capisce pure il continuo desiderio del salmista: il tuo volto Signore io cerco. Mostrami il tuo volto. Nome e volto di Dio sfuggono al dominio umano, dio è l’irraggiungibile, verso di lui si è sempre in cammino nella condizione di viatores.

Dio è l’assolutamente diverso. Se tale, non è possibile comprenderlo, ma non è neppure possibile arrivare alla conoscenza che è il diverso. “L’uomo per poter sapere che Dio è il diverso, ha bisogno di Dio”. L’intelletto si scontra con il paradosso e costata il suo fallimento. Si trova annullato, eppure proprio qui dove il limite è invalicabile, sorge la passione dello scandalo. “Il paradosso è la passione del pensiero […] è questo allora il supremo paradosso del pensiero, voler scoprire qualcosa che esso non puà pensare”. Per rimettere in moto l’attività della ragione e del linguaggio è necessario che Dio stesso prenda l’iniziativa e venga incontro all’uomo”. “Dio deve offrire la condizione (adeguata) altrimenti il discepolo non potrebbe intendere nulla”.

Se ora ci si chiede, qual è la condizione con la quale Dio si è dato a conoscere all’uomo, ci si imbatte con l’evento dell’incarnazione epiù in particolare con il conseguente attributo della sua debolezza. Solo in quanto si fa in tutto uguale a noi, entra nel linguaggio, si abbassa alla condizione umana, diventa accettabile. È il suo volto debole, l’annullamento dei suoi attributi, la sospensione del suo essere uguale a Dio, è la sua uguaglianza con l’uomo  il presupposto per parlare di lui (Ef.2,1ss). Eppure proprio qui dove si fa avanti l’umano a noi familiare e accessibili, si urta con lo scandalo e il paradosso. Quanto più Cristo si avvicina, tanto più lo si sente lontano, quanto più lo si conosce quanto più si capisce di non conoscerlo.

“L’intelletto ha accolto Dio come il più vicino possibile, eppure nel contempo è il più lontano […]. L’intelletto alla fine si inganna quando definisce lo sconosciuto come il diverso e scambia la diversità con l’uguaglianza. Da qui segue qualcosa d’altro, e cioè che l’uomo, nel caso voglia veramente acquisire una notizia sullo sconosciuto (Dio), deve anzitutto sapere che esso è diverso da lui, assolutamente diverso, da sé l’intelletto non può capirlo”.  La conoscenza non può partire se non dal presupposto della somiglianza all’umano, dalla partecipazione alla sofferenza, alle occupazioni umili della vita quotidiana, dalla sua scomparsa nell’uniformità delle abitudini e dall’adattamento alle istituzioni sociali. “Ecco, qui c’è un uomo che ha l’aspetto di tutti gli altri uomini; cresce, si posa, ottiene un impiego come tutti gli altri uomini, è preoccupato del pane per il domani com’è il dovere di ogni uomo: perché potrà essere abbastanza bello voler vivere come gli uccelli dell’aria (Mt 6,26), ma ciò non è permesso e può portare alla fine più miseranda o, quando ne abbia la capacità di sopportazione, a morire di fame, oppure a vivere dei beni altrui. Questo uomo è nel contempo Dio”.

È l’essersi fatto mortale, finito, contingente, debole, è la sua uguaglianza con l’uomo che consente di parlare di lui. Una volta che si passa dagli attributi trascendenti a quelli umano, si ha a che fare con una realtà proporzionata al linguaggio, si entra nella storia, che è sempre raccontabile e descrivibile. Proprio perché esiste un Dio che fa sua la sofferenza umana e la interpreta, è possibile un linguaggio autentico. La parola della sofferenza è la più vicina al Dio del crocifisso. “Il Dio invisibile, ma personale non è incontrato a prescindere da qualsiasi presenza umana […]. Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini”. Dio entra nella storia e soprattutto là dove essa è scossa, agitata da violenze e colpita dal disordine. Dio che assume sulle sue spalle il male del mondo, si fa vicino più che mai. Il punto di partenza che consente di parlare di Dio è la Kenosis. Lo stesso linguaggio mortifica Dio, lo ritrae appunto nella condizione della Kenosis.

Continua qui