Principi per un nuovo ordinamento

di Matteo Prodi, pubblicato sul sito http://www.settimananews.it/

Per costruire un popolo in pace, giustizia e fraternità assumendo le contraddizioni e le antinomie presenti nel sociale come energia per il cambiamento l’attuale pontefice chiede di far riferimento ai quattro principi, riproposti in Evangelii gaudium, ma in elaborazione nel suo insegnamento almeno dal 1984[1]. Vorrei provare ad applicarli alla situazione che l’attuale pandemia ha provocato. Non è semplice, anche perché Bergoglio non insegna ad usarli[2].

Il tempo superiore allo spazio

Questa pandemia ha ristabilito il primato dello spazio sul tempo, soprattutto nelle nostre esistenze personali: confinati in casa, abbiamo vissuto e viviamo giorni uguali gli uni agli altri; la sensazione è quella del criceto che gira all’infinito nella sua ruota. Abbiamo, così, sperimentato il limite e perso di vista la pienezza.

Per interpretare il tempo presente è decisiva una frase: «I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae»[3]. In una tragedia incalcolabile, con oltre 30.000 morti solo in Italia[4], nessuno riesce a garantire un futuro privo di contagi, in attesa di un messianico vaccino. La ristrettezza e, a volte, la solitudine delle case ruba il domani. Il primo principio appropriatamente parla del tempo come luce, come orizzonte per superare i limiti, come utopia che diventa la causa finale che attrae.

L’utopia, «può nascere soltanto quando, con il passaggio alla modernità, si affaccia la possibilità di progettare una società alternativa a quella dominante e di lottare per la sua trasformazione in realtà».[5] Occorrerebbe ricomprendere la profezia, cioè la critica radicale che la parola rivelata riversa contro i poteri e i potenti e chiedersi cosa vuol dire oggi profezia.

Dovremmo recuperare la parola rivoluzione, parola decisiva per la storia dell’Occidente, tanto che su di essa ha costruito le sue fortune e proprio la sua mancanza ne sta decretando il tramonto.[6] Proprio questo evento inatteso (fino ad un certo punto inatteso)[7] mostra la nostra fragilità e la nostra incapacità a trasformarlo, a rivoluzionarlo. Dove troviamo un pensiero rivoluzionario? La storia potrebbe insegnarci qualcosa, ma abbiamo ripudiato le tre parole della Rivoluzione francese, soprattutto nel loro rafforzarsi a vicenda. Qualcuno ha assolutizzato la libertà, altri l’uguaglianza; tutti si sono dimenticati della fraternità.

È interessante leggere il documento sulla Fratellanza umana, firmato dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb e papa Francesco: compare la fratellanza ma anche libertà e uguaglianza. L’isolamento cui siamo costretti potrebbe spingerci verso le tre parole della Rivoluzione francese, verso orizzonti più larghi. Nel chiuso delle nostre celle, abbiamo bisogno di imparare dalle claustrali, per le quali il ritirarsi vuol dire aprirsi all’eternità di Dio. Abbiamo solo rivendicato la possibilità di tornare a riempire spazi, per altro già abbondantemente svuotati.

La Chiesa e la politica hanno bisogno di riscoprire il gusto dei tempi lunghi, dell’avvio di processi verso la comprensione della pienezza dell’umano: occorre «dar vita a processi che costruiscano un popolo, più che ottenere risultati immediati che producano una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana. La storia forse li giudicherà con quel criterio che enunciava Romano Guardini: “L’unico modello per valutare con successo un’epoca è domandare fino a che punto si sviluppa in essa e raggiunge un’autentica ragion d’essere la pienezza dell’esistenza umana, in accordo con il carattere peculiare e le possibilità della medesima epoca”».[8]

L’unità è superiore al conflitto

Il virus è un nemico invisibile e non sappiamo bene come combatterlo. Si rischia di massacrarci a vicenda, cercando di colpire la minaccia con strumenti non adeguati. Una crisi così delicata può incancrenire i conflitti, piuttosto che portare all’unità. Prendiamo come esempio l’Italia e le misure adottate dal governo e dalle Regioni.

La Costituzione, prevede l’articolazione territoriale per essere più vicini alle persone, non per minare l’unità della nazione, della solidarietà che unisce dal Sud a Nord. Ma tutti si sono dimenticati che la profilassi internazionale è di stretta competenza dello Stato, non delle Regioni (art. 117q; nell’art. 120 lo Stato può sostituirsi alle Regioni per l’incolumità delle persone; per le epidemie è responsabile il ministro della Sanità).

L’Italia si è frantumata; serve a poco cantare l’inno nazionale sui balconi. Non parliamo degli scenari geopolitici, dove il virus è servito per incancrenire le contrapposizioni e per dimenticare il semplice fatto che da queste crisi se ne esce solo insieme. Aggiungiamo i tentativi di molti di arricchirsi, danneggiando la collettività. Insomma la bella retorica secondo cui ne usciremo migliori può rimanere un puro esercizio retorico. Abbiamo anche fatto in modo di ritrovarci nel bivio lavoro o salute, che avevamo giurato, grazie all’ex ILVA di Taranto, di evitare in modo assoluto. Molta solidarietà è stata anche vissuta, ma non abbiamo costruito un mondo solidale. Eventi traumatici recenti sono serviti alle élite per consolidare il loro potere e le loro ricchezze.[9]

Non è, quindi, scontato che il ritornello Tutto andrà bene si realizzi. Anzi. Gli attuali leader sapranno interpretare correttamente il loro ruolo? Sapremo curarci degli altri? Siamo molto toccati dal dolore oggi, solo perché ora è anche nostro, nostro e dei nostri vicini e parenti? Nessuno ha detto Tutto andrà bene per le emergenze migranti o la guerra in Siria. Questo non è amore politico, ma egoismo sociale. Il Covid-19 doveva spingerci a ricordare che «è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto.

La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[10]

Solidarietà come stile di costruzione della storia significa che la solidarietà deve divenire l’anima della rivoluzione da progettare; non bastano medici e infermieri generosi, ma occorre un mondo proteso a costruire la felicità dell’altro come fine della propria vita. La cura dell’altro è il capolavoro che può dare senso alle esistenze: e questo a tutti livelli a partire dalla famiglia per arrivare ai livelli politici ed economici più alti. Ogni conflitto va appianato, perché solo insieme, come per la questione ambientale, usciamo da questa tragedia.

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