Anno della Vita Consacrata – Anthony F. McSweeney, SSS (parte seconda)

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LA VITA CONSACRATA OGGI

Anthony F. McSweeney, SSS

(PARTE SECONDA)

L’interiorità: Etty Hillesum, profeta da fuori

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Etty Hillesum

La priorità della profezia. Dio non manca di inviarci profeti, anche se, alle volte vengono, per così dire, da fuori. Dio rimane sempre libero di fronte alle strettezze dei nostri concetti. Sono stato particolarmente colpito a proposito dall’esperienza di una di queste figure profetiche del nostro tempo – una donna ebrea davvero straordinaria che si chiama Etty Hillesum.

II suo itinerario spirituale è stato scoperto soltanto negli anni recenti. Etty Hillesum lavorò come operatrice sociale e infermiera nel campo di Westerbork nell’Olanda orientale, che raccoglieva gli ebrei presi nei rastrellamenti nazisti. Da lì partivano ogni settimana treni gremiti di ebrei – bambini, ragazzi, giovani, donne e uomini – verso i campi di concentramento e le camere a gas di Auschwitz, dove nel 1943 morirà anche lei, all’età di 29 anni. II suo diario e le sue lettere raccontano uno straordinario cammino spirituale vissuto in mezzo ad orrori disumanizzanti.

Anche se stanca per lo stressante lavoro quotidiano, ogni notte Etty lavorava al suo diario, come nel crogiolo in cui l’agonia del suo popolo, la loro disperazione e terribile rassegnazione, il loro odio per gli sterminatori, il loro non voler sapere né pensare agli orrori che non sopportavano entrassero nelle loro menti – tutto ciò era dolorosamente ma instancabilmente trasformato dall’amore. Rendendosi conto che il male che opprimeva la sua gente stava, anche, in un certo modo, nel suo cuore, lottava notte dopo notte per liberarsi delle sue insidiose trappole. Dall’abisso di violenza e male in cui stava sommersa, ogni giorno cercava e conservava come un tesoro qualcosa di bello, radioso e vero.

A ogni nuovo crimine e orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. […]

II marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza prima aver fatto la nostra parte dentro di noi. É l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove.

Etty, credo, è un profeta che ha qualcosa di molto prezioso da insegnarci in questo difficile momento della storia della nostra vocazione di consacrati. Figlia dei profeti ebrei e appassionata lettrice dei santi e dei mistici cristiani, Etty sapeva che il dramma del suo tempo e la tragedia del suo popolo doveva affrontarli, non solo fuori nel mondo che la circondava, ma nel profondo del suo essere.

Istintivamente, le sembrava aver raggiunto la misteriosa verità che dice che il profondo male del mondo, il “peccato del mondo”, lo si deve, in qualche modo, prendere su se stessi e vincerlo nel proprio cuore. Come dice la Lettera agli Ebrei: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli (Gesù) ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2, 14-15).

E’ questo il livello di interiorità, suggerisco, che siamo chiamati ad abitare perché la nostra vocazione, il nostro carisma possa rinascere profeticamente in noi. Per il resto, dobbiamo certamente continuare a lavorare, dobbiamo fare tutte le cose che devono essere fatte, dirigere riunioni, fare programmi, amministrare i nostri istituti, giorno dopo giorno spenderci per la gente. Però il lavoro più significativo si fa ad un altro livello, là dove possiamo guardare le nostre carenze e i nostri errori con uno sguardo fermo e risoluto e accettarli senza scoraggiarsi. Così possiamo imparare la saggezza e intuire che, mentre la nostra storia sembra oggi così spesso una cocente delusione, Dio non vi è assente. II nostro pane può a volte essere amaro e la nostra acqua salata, però Dio può, se daremo il nostro consenso, fare uso dei nostri apparentemente inutili sforzi per far nascere qualcosa di nuovo.

Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: ‘Questa è la strada, percorretela’ caso mai andiate a destra o a sinistra (Is 30, 20-21).

 

La centralità di Gesù Cristo

La sfida che emerge, mi sembra, è quella di saper pensare tutto a partire da Gesù Cristo e non solo dalla dottrina che deduciamo dal suo insegnamento, ma innanzitutto di eucaristia04saper giudicare le situazioni alla luce del suo modo di essere, della sua visione dell’esistenza. Ciò esige ben altro che un’operazione cosmetica che consisterebbe nell’aggiungere qualche riferimento a lui alle opzioni prese, per così dire, in altra sede.

Significativa in questo contesto era la debolezza della dimensione mistico-sacramentale nello svolgimento del Congresso. Se nella riflessione sui voti, per esempio, mancava il riferimento cristologico, ancora più inquietante fu il fatto che la grande assente del Congresso fu l’Eucaristia. Ne parlò solo il Prefetto della Congregazione per la Vita Consacrata! Questa dimenticanza dovrebbe interrogarci come anche il fatto che l’omissione fu poco commentata.

Di fatto si passò dalla riflessione su Gesù agli impegni di oggi senza una vera continuità e saltando la mediazione sacramentale. Eppure è proprio l’Eucaristia, secondo Benedetto XVI, che “getta una luce potente sulla storia umana e su tutto il cosmo” (Sacramentum Caritatis, Esotazione Post-Sinodale, n. 92).

Per il Papa, la posta in gioco più critica per la Chiesa del nostro tempo è proprio la comprensione esatta e integrale di Gesù Cristo e il suo ruolo nello svolgimento della storia della salvezza. La cristologia è al centro del dibattito attuale in due campi di vasto significato: quello della lotta per la giustizia che ha avuto per centro l’America Latina e quello del dialogo inter-religioso che si svolge in Asia e particolarmente in India. La risposta di Benedetto XVI, assai singolare nel contesto del papato moderno, è stata la pubblicazione di un libro su Cristo. Non un’enciclica papale ma un libro-testimonianza del credente teologo Josef Ratzinger!

La questione si propone anche per voi in questo Capitolo, con la vostra scelta della giustizia e la solidarietà nel campo della sanità. E’ un argomento di grande attualità che ci mette davanti problemi vasti e complessi. Ci propone anche interrogativi non facili. Come vivere, per esempio, la lotta per la giustizia insieme alla consegna evangelica di “non opporvi al malvagio” (Mt 5,39)? La solidarietà con le vittime conduce necessariamente a delle separazioni, anche dolorose; come vivere queste divisioni, come schierarsi, senza rinunciare ad un amore universale?

Di fronte alle scelte che scaturiscono da una tale opzione non sembra sufficiente fare appello ai “valori di Gesù”, anche se un tale appello sia utile, anzi necessario, nel campo della collaborazione con altre persone di buona volontà nella lotta comune per un mondo più giusto e fraterno. Le esigenze del discernimento ci obbligano ad andare più a fondo nella ricerca di raggiungere la coscienza di Gesù, il suo modo di accostarsi alla realtà, di giudicare le situazioni, di agire. Esige ciò che Paolo ha chiamato, in un contesto di discernimento la trasformazione della mente[1].

Ed è proprio qui che l’Eucaristia ha un ruolo importante. La mediazione sacramentale del Mistero Pasquale mira precisamente a creare in noi una nuova coscienza. Secondo il Papa, “la forma eucaristica dell’esistenza può davvero favorire un autentico cambiamento di mentalità nel modo con cui leggiamo la storia del mondo” (Sacramentum Caritatis, n. 92).

Mi sembra che qui sta una grande sfida per noi religiosi in questo momento, se è vero, come suggerirebbe una lettura critica del Congresso, che il pensare tutto a partire da Cristo sia un elemento al quale noi non abbiamo dato in questi anni un’attenzione sufficiente.

I nostri voti luogo della presenza di Cristo

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Particolare di “Gesù risorto e Maria Maddalena”, Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova

Joáo Batista Libanio, gesuita brasiliano, suggerì che la vita religiosa non è definita dai tre voti, ma bensì da tre elementi strutturali che sono: a) un’esperienza fondante di Dio; b) la vita comunitaria; c) la missione. I voti, insisteva, non sono da considerare come elementi costitutivi della vita consacrata; sono da intendere invece in relazione a questi tre elementi.

C’è verità in ciò che asserisce Libanio, però sbaglieremo se sottovalutiamo la dimensione dei voti nella nostra vita. E’ vero che abbiamo parlato molto della povertà, però quasi esclusivamente in termini sociali e in relazione all’opzione per i poveri, la inserzione, ecc., argomenti bellissimi è vero, che non toccano però il vero problema di fondo. Non sarebbe forse giusto dire, che almeno nella loro intima e profonda dimensione personale, i voti sono passati in secondo piano nella nostra coscienza?

Suggerirei che potremmo proficuamente provare a ri-leggere la sfida del nostro momento presente, come ho cercato di articolarlo in questa sede, alla luce dei nostri voti.

Quale è l’obbedienza che Dio attende da noi oggi? Non sarà entrare con Cristo nel dolore e nell’oppressione attuali dell’uomo per incontrare il Cristo pasquale che ci insegna a vedere le cose alla luce del suo mistero pasquale?

Per molti di noi, oggi, la nostra ‘povertà’ non è tanto una realtà materiale quanto qualcosa di più radicale, esistenziale, consistente in un’impotenza di fronte alla resistenza della realtà – assenza di vocazioni, vedendo che la cultura passa al largo e siamo spinti al margine mentre altri attori prendono il nostro posto. La sfida è sicuramente di scendere dentro la nostra povertà, non sfuggirla attraverso lo scoraggiamento o il volontarismo; dobbiamo imparare una specie d’attiva passività, una profonda aspettativa, una paziente attesa.

II nostro voto di castità ci spinge a cercare lo Sposo, per udire la sua voce, come Maria Maddalena e rivolgersi a Lui, aggrappandoci a Lui fino ad udire che ci dice “Va e dì ai miei fratelli e sorelle che ho vinto, che la vita è più forte della morte”. Dobbiamo essere inviati dal roveto ardente, dalla tomba vuota, e mandati dalla misteriosa presenza del Risuscitato alla mensa dove il pane della tribolazione e della sconfitta è stato spezzato e trovato essere in realtà il sano e saporoso pane della gioia e della vita.

Sarà soltanto allora, quando i nostri occhi saranno stati purificati da quel fuoco, i nostri cuori liberati e dilatati da quella voce e la nostra tristezza trasformata da quel pane spezzato, che la passione del Signore per il suo popolo risiederà veramente dentro di noi. Sarà allora che la gente si sentirà toccata dalla testimonianza del nostro amore, un amore che in fondo non è nostro, ma il vero amore che Dio ha portato per nascere nei nostri cuori spezzati. Sarà solamente allora che le nostre parole avranno peso, solamente allora la nostra presenza sarà una misteriosa comunicazione di gioia – una gioia che conferisce pace e forza, che guarisce riconcilia e libera.

La realtà che viviamo ci porta a una nuova, più cruda e più radicale esperienza delle vere fonti del nostro carisma. Mentre lamentiamo i nostri limiti – proviamo pena per la nostra incapacità di infondere nuova vita nei nostri istituti, per tornare a recuperare l’incanto della nostra vocazione in modo che possa parlare ai cuori dei giovani e infiammare il loro idealismo – perdiamo continuamente la bussola. Sbagliamo a non percepire che è proprio dentro questo senso che proviamo di fallimento, questa reale impotenza, questa stessa umiliazione, il luogo della rinascita.

Qui sta l’importanza dell’Esilio, tale come fu vissuto nell’esperienza di Geremia ed Ezechiele. Dalla più profonda disperazione è nata la speranza di una nuova alleanza. Allo stesso modo, Gesù condusse la samaritana dentro la sua interiorità spezzata e la sua alienazione – i cinque mariti – fino a che si rese conto di ciò che realmente stava desiderando profondamente da tanto tempo. Questo fece sì che desse alle sue parole un’energia tanto convincente che tutti i suoi concittadini si sentirono spinti a cercare il dono di Dio, anche da parte di un odiato ebreo. Scoprirono, allora, il pozzo di acqua viva dentro se stessi: “Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il Salvatore del mondo” (Gv 4, 42).

Il nostro è certamente tempo di potatura; un tempo per tagliare rami che non danno più frutto. E’ il tempo di ripetuti tentativi per ri-inventare, meglio, di ri-vitalizzare il nostro modo di vivere, un tempo di prove e di errori e di abbozzare piani di rinnovamento solo per poi scartarli uno dopo l’altro. E’ più decisamente tempo di perdite, un tempo apparentemente caotico, i nostri sforzi spesso inconcludenti e frammentari.

Sarà ancora il tempo di un nuovo e trasformante incontro con Cristo? Sarà un tempo in cui Dio sia come fosse rinato nei nostri cuori? Questa, suggerisco, è una domanda in ultima istanza importante, la sola domanda che conta realmente

[1] “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12,2).