Enrico Rebuschini: dono e modello

Di Domenico Casera

Il Beato Enrico non appartiene ai secoli passati, nei quali la santità della vita all’interno delle comunità poteva essere ritenuta più facile; è figlio del nostro tempo e della nostra cultura; visse tra i confratelli che riflettevano – accanto a indubbie capacità e disposizioni positive – le contraddizioni, le lotte e i contrasti della nostra epoca, attraverso i periodi della diffusa ostilità alla Chiesa e dell’anticlericalismo imperante; constatò da vicino, nella sua casa trasformata in ospedale militare, i frutti acerbi della guerra mondiale; vide l’affermarsi delle dittature e delle leggi razziali, oggetto per lui di grande sofferenza negli ultimi giorni di vita; ricoprì incarichi di responsabilità affaticanti che non collimavano col suo desiderio di vivere nella discrezione la vita sacerdotale.

In questo quadro variegato di vicende a volte pesanti, che rendono arduo il cammino della santità, si snoda il filo d’oro di quella esemplarità di vita che ha colpito tanto favorevolmente i suoi contemporanei.

Il Decreto della Congregazione dei Santi Super virtutibus illustra la ricca dotazione spirituale di padre Rebuschini nella sua luce più vera: quella del camilliano che onora la sua vocazione al servizio dei malati. Risiede qui la sua identità. Anche prima di farsi camilliano a ventisette anni, aveva scritto in un quadernetto di voler affinare la virtù dell’ascolto e del servizio nei confronti del prossimo. Si sentiva spinto a fare per il prossimo quanto era il suo potere, «amarlo dello stesso amore con cui Dio lo ama», «amarlo come creatura di Dio», stabilirsi nello spirito di «infimo suo servo», amarlo «in ordine a Dio tanto che il mio unico pensiero in loro riguardo sia quello di pregare per i loro bisogni e fare il poco che posso nello spirito di servo infimo, perché questo è il mio dovere».

A questi proponimenti meditati e nobili aveva fatto seguire i fatti: rinunciò ad un lavoro sicuro nell’industria serica del cognato, perché, nonostante la sua buona volontà, sentiva che la via del commercio non corrispondeva alle sue propensioni; si occupò come ragioniere all’ospedale civile di Cono, ma fu congedato dopo poche settimane perché lasciava troppo spesso l’ufficio per andare nei reparti a visitare i malati. Prendeva visione diretta dei loro bisogni, li aiutava a risolvere i loro problemi, i sosteneva moralmente e materialmente con erogazione generose. Su indicazione della zia Lena, ch’era presidente della san Vincenzo, visitava i malati e i poveri a domicilio, dimostrandosi sempre servizievole benefico. Per cui, quando si trattò di decidersi ad entrare in un ordine religioso, la scelta camilliana gli cadde addosso come un frutto maturo.

Dall’ordinazione sacerdotale (1889) fino alla morte (1938) egli visse – con brevissima interruzione nella casa di formazione – tra i malati, dieci anni negli ospedali di Verona e trentanove nella Casa di Cura San Camillo a Cremona. Qui fu anche economo per trentaquattro anni e superiore per undici. Svolse questi uffici con onesta. Con integrità e accuratezza, ma ogni giorno si ritagliava il tempo per una visita quotidiana ai malati ospiti e per frequenti visite a malati nella città. Si può compendiare il suo apostolato – ci dice il Decreto della Congregazioni dei Santi – «come prolungamento dell’inesauribile misericordia e pazienza e bontà di Gesù, il quale si chinò su tutte le miserie dell’umanità ferita dal peccato attraverso la cura dei corpi doloranti diede pace e salvezza alle anime».

Fu cosi – continua il Decreto – l’irradiazione costante della carità di Cristo, l’apologetica vissuta della delicatezza. L’esempio di Gesù fu lo stimolo segreto del suo apostolato, che si è interrotto solo con la morte. Distribuiva i doni della redenzione, offriva l’esperienza della misericordia di Dio e di quella dolcezza del vangelo di cui tutti abbiamo bisogno. Conduceva i malati a Dio con la bontà, la dolcezza, l’”umanità”, ricalcata sull’umanità di Dio per gli uomini, con le parole della fede e della speranza. Offriva il sacramento della riconciliazione con discrezione e amabilità. Eseguiva i doveri sacerdotali e comuni con dignità, diligenza e costanza. Era sempre disponibile ad accogliere le persone con garbo, con tatto nobile, con autenticità di sentimenti.

Cosi lo ricordano i testimoni chiamati a deporre ai processi canonici, con ammirazione, con affetto, lasciando intendere fino a qual punto quel singolare “apologeta della delicatezza” li aveva colpiti nell’animo. «Scosse salutarmente», dice il Decreto, «il suo Ordine religioso e la città di Cremona».

La glorificazione di padre Enrico Rebuschini è un dono di Dio a nostro stimolo e incitamento.

Come dono la accolgono i confratelli e i fedeli di Como, Verona e Cremona. Come dono e modello di riferimento guardano al Beato Rebuschini in particolare gli operatori nel mondo della salute e i cappellani ospedalieri.

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