Il fratello che non t’aspetti

Riflessioni sulla parabola del buon samaritano a partire dal secondo capitolo “Un estraneo sulla strada” della Lettera enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti.

Luciano Sandrin – camilliano

Relazione ai Medici cattolici di Verona il 14 dicembre 2020.

Fratelli tutti è il titolo della Lettera enciclica di papa Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, «una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita» (n.1). È una fraternità – aggiungo io – capace di declinare in maniera diversificata la prossimità.

Mentre scriveva questa sua lettera – scrive il Papa – «ha fatto irruzione in maniera inattesa la pandemia del Covid-19, che ha messo in luce le nostre false sicurezze. Al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme. Malgrado si sia “iper-connessi”, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti. Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà» (n. 7). Proprio questa pandemia ci ha fatto scoprire, o riscoprire, che nessuno può affrontare la vita in modo isolato. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. È importante sognare insieme. Da soli si rischia di avere dei miraggi e si rischia di vedere quello che non c’è (cfr. n.8).

Alcuni ostacoli

Molte sono le «tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale» (n.9). Papa Francesco ne fa un elenco nel primo capitolo della sua Lettera. Toccano il mondo della politica, dell’economia e della finanza. Sono i rischi insiti in una società sempre più globalizzata che ci rende più vicini ma non ci rende fratelli. «L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti» (n.12). Sono molte, e anche nuove, le forme di colonizzazione culturale. Si accentuano anche le forme varie di individualismo. E dimentichiamo che «prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune» (n.17).

Viviamo, però, in un tipo di cultura nella quale certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di altre: è una società dello scarto. Oggetto di scarto non è solo il cibo o i beni superflui ma anche le persone più fragili. E molte volte «si costata che i diritti umani, di fatto, non sono uguali per tutti» (n.22). «Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici». Le situazioni di violenza vanno moltiplicandosi. Papa Francesco ama parlare di una «terza guerra mondiale a pezzi» (n.25). In ogni guerra e in ogni violenza ciò che viene distrutto è lo stesso progetto di fratellanza. Tornano paure e difese. E si innalzano muri prima di tutto nel cuore. Ma «chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti», perché gli manca il rapporto e il confronto con l’altro (n. 27)

Ci sono certo «sviluppi positivi avvenuti nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, nell’industria e nel benessere soprattutto nei Paesi sviluppati» ma contemporaneamente «si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità» riscontrabili nella nascita di focolai di tensione, forti crisi politiche, varie forme di ingiustizia e, in particolare, nella mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali. «Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile» (n. 29). «Nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono». Però la chiusura in se stessi e nei propri interessi non è mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento. Lo può essere la vicinanza e «la cultura dell’incontro» (n.30).

«Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme». E abbiamo riscoperto «quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli» (n.32).

Tutto è connesso. È quindi difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto anche con i nostri stili di vita e con la nostra pretesa di «essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste» (n.34). Il rischio è che, passata la crisi, dimentichiamo in fretta la lezione di questa storia. Quasi fosse una parentesi da chiudere in fretta. «Voglia il Cielo – si augura Papa Francesco – che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”». L’augurio è «che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato» (n.35). Siamo chiamati «a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni» (n.36).

Un particolare problema, affrontato diversamente dai vari paesi, è quello dell’emigrazione. Bisogna rendersi conto – scrive il papa – che «le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo». E ci sono «gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti» (n.40). Ricordando che «una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri» (n.41).

«Paradossalmente, mentre crescono atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto agli altri, si riducono o spariscono le distanze fino al punto che viene meno il diritto all’intimità» (n.42). Viene meno il rispetto verso l’altro. E nella comunicazione digitale viaggiano anche l’odio, forme varie di aggressività, il desiderio di distruggere l’altro e la diffusione di informazioni e di notizie false. Anche da parte di persone religiose, non esclusi i cristiani. La prossimità digitale è un valore, ricoperto anche in questo particolare momento, ma ha i suoi rischi, che vanno monitorati. Oggi si può selezionare ciò che più ci piace. E diventare sordi a ciò che ci disturba.

Però, malgrado tutti questi problemi che non vanno ignorati, è importante dare voce a tanti percorsi di speranza. «Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene. La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose, … hanno capito che nessuno si salva da solo» (n.54).

Papa Francesco invita a camminare nella speranza. Ma la speranza è audace, è coraggiosa, perché sa guardare oltre i condizionamenti presenti e sa «aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55). È una speranza che sa guardare oltre alle forme di prossimità già date.

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