La fragilità di p. Rebuschini

Da “Esercizi spirituali alla scuola del beato Enrico Rebuschini” di p.Domenico Casera

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Beato Tezza e Beato Rebuschini. Vetrata Venezia

Affrontiamo quello che è considerato il limite maggiore della personalità di p. Rebuschini. Ebbe lungo il percorso di 78 anni quattro depressioni gravi. Ci è possibile ricostruirle sulla base di documenti.

La prima fu a Roma, al Collegio Lombardo, mentre frequentava il quarto semestre alla Gregoriana. Sopravvenne improvvisa nel marzo del 1886. «Malattia mentale», annotava il rettore nel registro degli alunni. Como messa al corrente, cercava di minimizzare: il vescovo ritiene trattasi di «perturbazioni di spirito, una tentazione del demonio». Il suo segretario, di «una nuova tribolazione che passa», il papà, di «una nuova ricaduta nei suoi dubbi». In realtà, la situazione era molto seria, fu ritirato in famiglia e curato in una casa di cura, non sappiamo quale. Guarì comunque in capo a qualche mese.

La crisi depressiva di cui soffrì sembra ricalcata sui testi scientifici in materia. Succede in soggetti che, normalmente rispecchiano l’attaccamento all’ordine, grande sensibilità alle esigenze morali, un senso del dovere sviluppato all’estremo. Si impegnano intensamente, sopra il rigo, ma poi crollano. La paura e il turbamento per non essere all’altezza del loro compito li immelanconisce (typus melancholicus), li disorienta, li deprime profondamente. Si instaura in loro una struttura negativa, una pianta parassita che succhia ogni energia fino a paralizzare l’espansione e la crescita della persona. Nelle sue espressioni più gravi, questo tipo di depressioni è definito una sincope nel tempo, un’immobilizzazione delle capacità, un ristagno, un’esistenza in sospeso.

Quattro anni dopo il male si ripresentò. Nel frattempo era entrato tra i Camilliani ed era stato consacrato sacerdote. I testimoni che vissero con lui quel periodo affermano che, concentrato nel pensiero dell’eternità e della predestinazione (confidò lui stesso più tardi che un opuscolo sulla predestinazione l’aveva turbato) era tentato di credersi tra i presciti, ed era portato a ripetere: ormai per me non c’è più altro.

Vanti esclude categoricamente che si trattasse di scrupoli o di malattia mentale. «Era – egli afferma- un’anima provata da Dio con la conoscenza di sé, fino ad avere orrore, fino ad odiarsi, a maledirsi per il vivo disgusto della propria ingratitudine, delle proprie infedeltà a lui»

La spiegazione era nella linea della cultura ascetica del tempo (prova di Dio). Stento ad accettarla. Ritengo che fu, anche quella volta, come più tardi nel 1896 (più leggera) e nel 1922, una ricaduta nel male oscuro. Era la stessa pianta parassita che si era installata in lui e sconvolgeva il suo quadro interiore. Nel 1891 e 1895 gli avevano affidato responsabilità educative, per le quali si sentiva inadeguato. Viveva nella penombra di sé, e tutto diventava strazio e lacerazione. Si sentiva disgregato e pieno di crepe. Cadde nello scoramento e nella disperazione. Nel terzo caso (1922), egli aveva alle spalle anni stressanti di responsabilità e di fatiche, senza una vacanza o distrazione. L’arco, troppo teso, s’era spezzato.

La presenza di questi periodi depressivi ha condotto due su nove consultori che hanno esaminato i processi canonici ad emettere voto sospensivo sulla prova teologica della eroicità delle virtù, per una certa opacità psicologica, e a far loro chiedere un supplemento d’indagine da mano esperta. Contro la loro esitazione, si può tranquillamente rispondere che, tra il 1896 e il 1922 intercorsero 26 anni, durante i quali p. Enrico funzionò normalmente, con soddisfazione e ammirazione dei confratelli, fu cappellano ospedaliero a Verona (1896-1899), addetto ai malati a domicilio a Cremona (1899-1903), economo della casa di cura S. Camillo a Cremona a partire da quando, costruita la casa alla cui progettazione e messa in cantiere aveva collaborato col superiore p. Endrizzi, bisognava arredarla e avviarne il funzionamento (1903-1907). Cumulò a questa carica quella di superiore (1912-1920 e 1921-1923). Nel 1915 dovette gestire la cessione della casa – pur conservando uno spazio minimo per i religiosi della comunità – alla Croce Rossa Italiana, che vi installò un ospedale territoriale per 250 feriti (compresi anche i solai). È documentato nella biografia un susseguirsi continuo di impegni e di preoccupazioni, che esigevano una mente lucida ed equanime, prontezza di riflessi e di decisioni, e una disponibilità al bisogno a prova di fuoco.

Per tutti quei 26 anni ebbe qualche problema di salute, una sinovite nel 1914 (ingessatura), un attacco influenzale nel 1915, uno di angina pectoris nel 1916, di febbre durante l’epidemia di spagnola 1918, ma mai una ricaduta nel «male oscuro». Vuol dire che, psicologicamente, opaco non era. Per ventisei anni funzionò egregiamente e esemplarmente.

rebuschini 2È vero che la crisi si ripresentò nel 1922. Trova la sua spiegazione – come abbiamo detto – nell’affaticamento accumulato negli anni della guerra e del dopo guerra, tecnicamente è un caso di burn-out. Aveva perduto il sonno e ridotto il cibo a tali proporzioni da non potersi reggere in piedi. Oltre, s’intende, le profonde pene collegate alla depressione. Ma guarì in meno di quattro mesi, un tempo ritenuto breve per chi sa di queste cose. Da allora cioè dal 15 luglio del 1922 fino alla morte, cioè per sedici anni, più nessuna ricaduta negli antichi scompensi. E anche in questo periodo fu superiore per due anni e economo per quindici. Valga per tutte la testimonianza di p. Moar, che ha vissuto con lui gli ultimi sei anni (1932-1938). Egli dichiara d’aver appreso solo dalle biografie che in passato aveva sofferto di periodi depressivi. «Quando lo conobbi era assolutamente equilibrato e sempre uguale a se stesso. Non mi è mai neppure nato il sospetto che avesse avuto degli esaurimenti».

Ne deduco che la psiche di p. Rebuschini, vista come il principio vitale dell’uomo, o anche l’insieme delle funzioni emotive, conoscitive e volitive dell’individuo, era radicalmente sana, ed è stata la convergenza di fattori estranei, soprattutto la pressione prolungata dello stress, a creare condizioni di disturbo e di alterazione. Come tanti malanni fisici sono dovuti alla riduzione o all’annullamento delle difese immunitarie, così tanti «mali dell’anima» si installano nell’individuo in seguito a turbamento nel complesso mondo interiore, a oscuramento delle normali funzionalità.

Le depressioni di p. Enrico non erano cicliche, o «stagionali», e quindi non possono configurare una psiche opaca o altalenante, erano episodi circoscritti da cui ogni volta si rimise più che onoratamente. Rappresentano il suo contributo alla situazione di fragilità cui ogni uomo – in mille forme diverse – è esposto. Egli ne era consapevole. Ebbe l’umiltà di riconoscere ed accettare questo limite nella sua biografia personale. Non si lasciò da esso travolgere. Arrivò a riflettere di sé l’immagine della serenità, della finezza d’animo, dell’equilibrio e della santità.

A ritrovare se stesso, in un’epoca nella quale non esistevano gli psico-farmaci e grande era il pericolo che le crisi acute si trasformassero in croniche, lo aiutò l’esercizio umile ed eroico della fede e della speranza, e il rinnovato proposito di dedicarsi agli infermi al meglio delle sue forze. Egli fa risalire la sua guarigione a Dio: «Iddio operò la mia salute col darmi la confidenza nella sua infinita bontà e misericordia». Concludendo il «Mio Giornale» nel maggio 1896, egli dà la misura del suo travaglio interiore, ma anche dell’affidamento a Dio; «Io invoco Dio in questa estrema mia necessità. Io non voglio temere se non l’offesa di Dio. Mio Dio, misericordia». E poi, applicando a se stesso: «Quando Dio libererà Israele, Giacobbe esulterà, e si rallegrerà Israele» (Sal 13)