L’esperienza di Dio nella vicenda umana e spirituale di San Camillo

 Relazione di Giovanni Terenghi agli aderenti alla Famiglia Camilliana Laica convenuti a Mottinello (Vicenza) il 30-31 ottobre 1999. Questa è la prima delle tre Relazioni dal programma 1999/2000: “L’esperienza spirituale di S. Camillo de Lellis”.

L’esperienza spirituale

Il titolo di questo ciclo di riflessioni (L’Esperienza Spirituale di Camillo de Lellis) necessita una chiarificazione. Quando infatti ci riferiamo a termini come “spiritualità” o “esperienza spirituale”, centriamo la nostra attenzione su una realtà che in qualche modo è connessa con la sfera spirituale dell’uomo. Ma allo stesso tempo forse rischiamo di dividere ciò che non è giusto né possibile separare: di fatto, uno sguardo all’esperienza personale, ci dice che la vita è un tutto unitario, anche se differenziato.

L’esigenza di distinguere l’ambito spirituale dagli altri ha una funzione pratica o didattica, ma non si dà nella realtà. Basta fare un esercizio in cui è direttamente implicata la nostra esperienza personale: proviamo a delimitare dove inizia la sfera “spirituale” del nostro essere e dove finisce: è un’operazione a cui dovremmo presto rinunciare, perché di estrema complessità e difficoltà.

Il titolo degli incontri di quest’oggi – “L’esperienza di Dio nella vicenda umana e spirituale di S. Camillo”, – sembrerebbe proporre una dicotomia, o quanto meno, una distinzione tra “umano” e “spirituale”, che di fatto dunque non si dà. Ma l’ho volutamente introdotta e messa in relazione con il comune denominatore dell’esperienza di Dio”, per mandare l’idea che in qualche modo qui parleremo dell’esperienza globale di un uomo in relazione con Dio e della sua particolare e unica configurazione. Ma cercheremo anche di formulare delle considerazioni più generali sull’Esperienza Spirituale, che in qualche modo possano aiutarci a riflettere, valutare, apprezzare e, al limite, rettificare, la nostra stessa esperienza spirituale. A questo punto, è necessario chiarificare brevemente i termini della questione. Cosa intendiamo quando si parla di “esperienza spirituale”?

Soffermiamoci sul primo termine: l’esperienza.

Il dizionario la definisce come “conoscenza pratica del mondo, acquisita mediante un contatto con un determinato settore della realtà”. Ci troviamo dunque di fronte a un tipo di conoscenza acquisito in modo apparentemente diretto, mediato dalla sensibilità più che dall’astrazione e dal ragionamento. Nello stesso linguaggio parlato, non diciamo infatti di “pensare un’esperienza”, bensì di “fare un’esperienza”. La distinzione può essere facilmente comprensibile se pensiamo alla differenza tra il sapere che il fuoco brucia e il rimanere scottati da una candela!

Potremmo definire l’esperienza come “un sapere che ha un sapore”. E se volessimo trovare dei verbi che in qualche modo possano descriverla, forse potrebbe aiutarci la parola “sentire” (rimanendo nell’ esempio della candela, probabilmente dopo esserci scottati, ci viene più spontaneo dire quello che abbiamo sentito – probabilmente dolore -piuttosto che quello che abbiamo pensato!). Non a caso il linguaggio più usato in quella particolare forma di esperienza spirituale che è la mistica, è un linguaggio esperienziale, in cui predomina il “sentito” (i “sentimenti” nel senso che più avanti vedremo), a scapito a volte del controllo mentale di quanto viene sperimentato.

Se questa è una delle caratteristiche principali dell’esperienza, possiamo già intravederne i vantaggi, ma anche alcune insidie. Quanto ai primi, ci basta qui richiamare l’immenso potenziale racchiuso nel conoscere mediato dai sentimenti:

“I sentimenti danno alla coscienza… la sua massa, il suo momento, la sua energia, la sua forza. Senza questi sentimenti il nostro conoscere e il nostro decidere sarebbero esili come carta. E’ dai nostri sentimenti, dai nostri desideri e dai nostri timori, dalla nostra speranza e dalla nostra disperazione, dalle nostre gioie e dai nostri dolori… che il nostro orientamento entro un mondo mediato dal significato deriva il suo peso e il suo dinamismo” (B. Lonergan 1975, 52-53).

E del resto è evidente come il dinamismo di una esperienza che non può non essere che soggettiva, rischi di rimanere confinata nell’ambito di chi ne fa l’esperienza, con le possibili deformazioni che ne derivano. La psicologia ci insegna come una cosa sia la realtà “là-fuori” per così dire, e un’altra la “medesima” realtà così come viene filtrata da noi nel momento in cui la percepiamo e ne facciamo esperienza. L’affermare di “aver provato la presenza di Dio nella propria vita”, per esempio, riveste un profondo significato di verità per l’individuo; ma al medesimo tempo, si avverte della necessità di criteri che in qualche modo siano “oggettivi”, e che ci diano qualche certezza che l’esperienza avuta è stato un autentico incontro con Dio e non solamente con noi stessi! L’esperienza di cui stiamo parlando è spirituale.

Di fatto, dal punto di vista cronologico, la prima realtà che appare nell’esperienza non siamo noi, bensì un altro, una situazione esterna a noi, “là-fuori”, un “tu” diverso da noi e con il quale entriamo in relazione facendone esperienza appunto. Nel nostro caso, stiamo considerando “l’esperienza di Dio”. I termini che definiscono questa esperienza sono dunque tre: il Dio rivelato da Gesù (il “tu-là-fuori”), noi, e la relazione tra Dio e noi (mediante la quale il “tu-là-fuori” di Dio, diventa in qualche modo parte della nostra esperienza personale). E in questa relazione, c’è un primato (non solo cronologico) di Dio, che mediante la sua grazia interpella l’uomo e lo chiama alla relazione con Lui, nella sequela del suo Figlio.

E la risonanza nella nostra coscienza di questa relazione è caratterizzata da una chiara (anche se non esclusiva) connotazione affettiva, che potremmo chiamare affettività spirituale (Ch. A. Bernard, Teologia Spirituale, 41). Da questo punto di vista, l’esperienza di Gesù, equivarrà ad avere “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), lo stesso modo di sentire che il Figlio ha avuto nei confronti del Padre.

L’Esperienza Spirituale si configura quindi come una specie di spazio intermedio tra il tu-di-Dio e le caratteristiche della nostra personalità, e richiede una costante integrazione tra le esigenze di Dio e le esigenze della nostra umanità.

In questa prima parte allora vorrei proporre alcune considerazioni di ordine generale sulla “nostra parte”, per così dire. Dato per scontato il primato dell’azione gratuita di Dio che in Cristo viene alla ricerca dell’uomo, quali aspetti della nostra persona vengono coinvolti nell’esperienza spirituale? Nella seconda relazione, tenteremo una rilettura di alcuni aspetti della vicenda di S. Camillo, facendo riferimento a questo schema generale.

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