Testimonianza positiva in tempo di coronavirus – condivisa da mons. Daniele Libanori, vescovo ausiliare di Roma.

Vittima o testimone del Coronavirus?

Mi chiedono di scrivere qualcosa su come sto vivendo questo momento di isolamento. Essere stato toccato dal Coronavirus e aver visto i suoi artigli prima a casa e poi in ospedale, senza essermi sentito diverso dagli altri, mi rende un po’ vittima e un po’ testimone, come molti altri del resto. Penso che la sfida sia rappresentata dal passare dal primo aspetto al secondo.

Sono stato vittima, come tante persone che intorno a me soffrono dello stesso male. Con l’incertezza nel vedere apparire i sintomi e rendersi conto che nulla ti calma, che le medicine non portano nessun sollievo, né il paracetamolo, l’ibuprofene, il nolotil né tanti altri antidolorifici. Ho provato la disperazione a causa di quella dannata febbre che non se ne voleva andare!

Mi sono sentito Vittima, perché venivo informato in modo schizofrenico riguardo a ciò che mi stava realmente accadendo. Infatti i numeri di telefono ufficiali che ho chiamato non mi hanno mai risposto; i medici nei passaggi previ al ricovero non mi hanno detto nulla; mi ripetevano: resta a casa, sarà un’influenza, sarà una malattia virale, adesso ti facciamo un test e vai a casa … Questo mentre i media mi inondavano di informazioni sui sintomi, e giorno dopo giorno a casa mi rendevo conto che erano esattamente quelli che avevo io. Sono arrivato a non capirci niente!

Mi sono sentito una vittima anche vedendomi improvvisamente segnato e individuato come qualcuno da isolare immediatamente e dal quale tenersi alla larga, uno che va segnalato al più presto come contagiato, in modo che tutti coloro con cui ero stato in contatto si potessero mettere rapidamente in quarantena. Quello che mi ha mostrato il volto peggiore di questa pandemia è stato il rendermi conto che essere infetto significava essere condannato a stare da solo, separato dagli altri. Mi risuona ancora nella testa il grido di un’infermiera rivolta a un’altra che stava per entrare nella mia stanza: non entrare nella 325 per niente al mondo! Quante stanze e case sono segnate in questo modo! A quanti si parla attraverso la porta, dentro una casa o una stanza, e gli si mette il cibo davanti alla porta! Quanti li si chiama al telefono solamente una misera volta al giorno dai centri medici, per lasciarli morire poco a poco, come Pepi, la sacrestana della nostra parrocchia.

Ma questa esperienza di essere vittima, – è forse la prima volta che mi capita – deve lasciare il posto a un’altra, quella del testimone, e questa, almeno nel mio caso, è l’esperienza più profonda e la più feconda tra quelle di cui sono consapevole.

Sono testimone di come la debolezza mi sfiora, prende possesso della mia vita o mi invade: è molto difficile provare questo, per minuti, ore, giorni che diventano eterni … Ma allo stesso tempo è molto fecondo, perché tocco la polvere e la terra di quello che sono veramente, un essere terreno, finito, frammentato … molto lontano da quella divinizzazione e da quell’autoreferenzialità in cui mi piace vivere, e che mi sforzo di raggiungere ogni giorno con la mia esperienza personale o professionale. Che cosa buona che questo benedetto virus ci faccia sentire deboli tutti: specialisti, politici, professionisti della salute, familiari e, naturalmente, i malati! Che opportunità sta diventando per imparare ad adorare e ringraziare per il mistero della fragilità e della vulnerabilità che avvolge questa avventura della mia vita.

Mi sento testimone inoltre per avere visto moltissime persone provenienti da posizioni diverse che fanno tutto il possibile.

Si racconta come Van Eyck e alcuni altri pittori fiamminghi firmassero i loro quadri con la stessa frase che diceva: «come meglio posso». Questa è la firma che stiamo tutti mettendo in questa quarantena.

Vorrei essere migliore di quello che mi trovo spesso ad essere; vorrei vivere meglio questo momento difficile; vorrei sentirmi più utile a partire da quello che sto facendo o vorrei fare … nelle nostre prestazioni professionali siamo tutti lontani o molto al di sotto rispetto a quello che ci si aspetta da noi nell’impegno e nel lavoro.

Ma chi ci ha messo in testa questo modo di pensare?

Ciò che la vita mi chiede in questa e in ogni altra circostanza è che faccia io «come meglio posso».

Per me è stato ed è così bello vedere questo nella premura delle persone della comunità in cui vivo e che si prendono cura di me così amorevolmente nell’isolamento in cui mi trovo; come in Raúl, il medico che durante quei cinque giorni in cui ero a casa mi chiamava al mattino, al pomeriggio e alla sera; come pure in tutto il team dell’ospedale Asisa alla Moncloa dove sono stato ricoverato per cinque giorni, come pure in tutto questo flusso di messaggi di incoraggiamento e preghiera che ho ricevuto e ricevuto al telefono… Come in tutta la società, che l’unica cosa che può fare è rimanere a casa e applaudire con gratitudine ogni giorno alle 20:00. Che grande lezione è questo per tutti noi, cioè sentirci più impacciati, meno efficaci, facendo solo «meglio che possiamo».

Sono testimone, infine, di quello su cui non ho potere. Non ho dubbi che questa pandemia mi sta costringendo tutti questi giorni a guardare esattamente quell’evento che cerco sempre di evitare: la morte. La vedo nei numeri che si moltiplicano ogni giorno e che non sono più figure, ma volti e storie di persone che amo, vicine alla famiglia, al quartiere in cui vivo, al lavoro, alla parrocchia di cui faccio parte, in tutte le aree della società … Nei miei giorni di ricovero, per quattro notti sono stato svegliato dalle urla del paziente nella stanza accanto, che nonostante l’ossigeno e tutto il resto aveva attacchi di tosse da soffocarlo … e io lì accanto che pregavo.

Mia madre, che mi chiamava due volte al giorno, martedì 17 mi ha detto che domenica 15, quando le ho inviato attraverso il gruppo family di Whatsap la notizia che mi portavano in ospedale, ha chiesto a mio fratello, con cui vive, che l’accompagnasse in chiesa a pregare. Io, senza lasciarla finire, le ho domandato: «Non avrai chiesto a Dio di guarirmi vero?». E lei, con la fede dei suoi 84 lunghi anni, mi ha risposto: «No, figlio, come puoi pensare che abbia chiesto questo a Dio, se noi non siamo niente. Gli ho chiesto che ti guarisca se serve. Poi per tutto il tempo l’ho supplicato che ovunque tu saresti andato mi portasse là con te. Perché vorrei stare vicino a te, non importa dove». Allora mi sono messo a piangere.

In questi giorni tornando a quel momento, sento che proprio allora ho iniziato a migliorare. Dentro di me, dove fino a quel momento c’erano soltanto il virus e la solitudine che lo accompagnava, all’improvviso ho sentito che ancora più in profondità, saltando tutti i protocolli, era entrato l’amore senza condizioni di mia madre.

È positivo che questa pandemia ci avvicini a quella realtà della vita su cui non ho potere, che è la morte, ma che è anche l’amore. Quando riusciamo ad esprimerlo, come mia madre con me, sono sicuro che si rivelerà più forte e andrà più in profondità del virus stesso, fino a strapparci dai suoi artigli. Quindi non stacchiamoci dal telefono per gridare a tutti coloro che si sentono soli e malati che sono non sono più, che c’è qualcosa di più forte del virus e della solitudine ed è l’amore che abbiamo per loro.

Seve Lázaro, sj