Entrare in un carcere e non vedere l’ora di uscirne è un tutt’uno. Dietro quelle mura grigie, dietro il clangore di quei cancelli, perfino l’aria che si respira, sembra più pesante. Ma le parole di Gesù “Io ero carcerato e siete venuti a visitarmi” sono in grado di rischiarare di nuova luce anche il luogo più triste e tenebroso. In ogni caso si tratta di un’opera di misericordia tra le più difficili da praticare, giacché il carcere non è un ambiente aperto e accessibile a chiunque. Si può per esempio, fare parte di un gruppo o di una Associazione che è autorizzata a entrare con i propri membri per “promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. (art.17 legge 353/75) Bisogna anzitutto ricordare che il carcerato è un uomo che soffre, perché privato della libertà, perché si sente causa di altre sofferenze, perché si sente emarginato e condannato prima ancora della sentenza definitiva. Finché sta in carcere è sempre possibile tenere con lui un rapporto epistolare: è una strada per impedire che la violenza del contesto carcerario, lo faccia disperare. Forse l’aiuto maggiore può essere offerto al termine della pena: un aiuto fatto di vicinanza, di sostegno nel reinserimento lavorativo, nel recupero di relazioni più o meno compromesse. Più grave in alcuni casi è la situazione della famiglia. Il coniuge deve portare il peso della solitudine e dell’umiliazione e spesso deve affrontare seri problemi finanziari.
I bambini, vittime innocenti, talvolta leggono sul volto del coetaneo lo scherno e il disprezzo: rischiano di vedere segnata la loro fanciullezza e adolescenza da un marchio: sono i figli del carcerato! La pietà cristiana e quindi le Parrocchie che hanno propri membri in carcere, possono fare molto: educare i credenti ad evitare assurde condanne e a porsi invece, in atteggiamento di accoglienza e di solidarietà. In questo campo la Chiesa è ricca di atteggiamenti profetici che costringono ogni credente ad un serio esame di coscienza. Anzitutto è stato Gesù nostro maestro, il quale dalla cattedra della Croce, in un gesto sublime di misericordia e rivolto al ladrone pentito crocifisso al suo fianco, gli rivolse le dolcissime consolanti parole: “Oggi sarai con me in paradiso!” Riflettiamo: il primo a entrare in paradiso, seguendo Gesù, è stato un ladro! Questo sublime gesto, ispirerà lungo i secoli molti credenti a prendersi cura dei carcerati o dei condannati a morte: San Vincenzo de’ Paoli volontario sulle galere; San Giuseppe Cafasso l’apostolo dei condannati a morte; il gesto commovente del Papa San Giovanni XXIII al Carcere di Regina Coeli; l’incontro di San Giovanni Paolo II con il suo attentatore; le due visite a Rebibbia compiute da Benedetto XVI, il quale in un inedito colloquio fatto di domande e risposte con i detenuti , felici di manifestargli la loro gratitudine per la meravigliosa visita gli dissero: “Santo Padre ti vogliamo bene” e lui subito di rimando: “anch’io vi voglio bene!” E continuando a parlare con loro così si espresse: ”siamo caduti, ma siamo qui per rialzarci”, ‘siamo’ non ‘siete’, sottolineò, “Vorrei mettermi in ascolto della vicenda personale di ciascuno di voi, ma non mi è possibile; sono venuto però a dirvi semplicemente che Dio vi ama di un amore infinito!” Anche Papa Francesco ha affermato parlando dei carcerati: “Qualche volta li chiamo, specialmente la domenica, faccio una chiacchierata con loro. Poi quando finisco penso: perché lui è lì e non io che ho tanti più motivi per stare lì?…potete dire questo: il Signore è dentro con loro; anche lui è un carcerato, ancora oggi, carcerato dei nostri egoismi, dei nostri sistemi, di tante ingiustizie, perché è facile punire i più deboli, ma i pesci grossi nuotano liberamente nelle acque. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro.”
A questo punto come credenti possiamo chiederci: anche se nell’ambito parrocchiale o cittadino non vi è un carcere, non vi sono forse famiglie o parenti di carcerati da aiutare e sostenere, non tanto forse a livello economico, quanto umano e affettivo? Sicuramente bisogna chiarire che: chi commette un reato deve certamente pagare, ma se in carcere dimostra volontà di riabilitarsi deve essere aiutato a farlo, favorendo il suo progressivo inserimento nella società- comunità. Da quanti vivono al fianco dei carcerati, per ragione di servizio o di assistenza religiosa, ci viene confidato che questi nostri fratelli, rinchiusi per avere commesso dei reati, sentono un disperato bisogno di ricreare un po’ di quell’ affettività che dà significato alla vita nella famiglia, tra gli amici, nella comunità e che il carcerato perde completamente se nessuno, dal mondo, non gli manifesta un po’ di benevolenza. Visitare i carcerati significa anzitutto esprimere loro questi sentimenti a cui hanno diritto tutti, compresi quelli giustamente imprigionati, compresi gli ergastolani. Senza quest’affetto della comunità cristiana, come potrebbero credere all’altro messaggio che essa manda loro: “Il Signore ti ama e sarai con lui in paradiso?” Inoltre nell’assistenza ai carcerati è necessario seguire la logica evangelica del ripartire dagli “ultimi”.
Anche fra i carcerati infatti ci sono gli “ultimi”. Questi sono i poveracci che non possono pagare l’avvocato e sono affidati alla difesa d’ufficio, che in genere vuol dire nessuna difesa. Ci si domanda allora: perché fra gli avvocati cristiani non ci potrebbero essere dei volontari che si mettano a disposizione dei detenuti poveri per difendere le loro cause? Ultimi sono anche i detenuti stranieri, fra cui moltissimi immigrati che sono isolati, senza parenti e senza mezzi. Chi conosce le lingue e soprattutto i missionari e le missionarie che conoscono anche i loro paesi, i loro costumi, non potrebbero farsi prossimi di questi fratelli? Un’altra modalità di visitare i carcerati ci viene da un progetto messo in atto dalla Diocesi di Pavia, dal titolo: “ giovani e carcere”. “ Una ragazza di 24 anni, neolaureata in lettere, visita il carcere: racconta cosa l’ha colpita. Mi ha colpito come il dialogare con questi carcerati mi abbia fatto dimenticare completamente che eravamo in una prigione e che loro si trovavano lì per qualcosa di grave che hanno commesso. Chiacchierando con queste persone infatti, mi sono sembrate proprio come me. Ho parlato con Antonio, poeta, che scrive poesie e ha 60 anni. Alcune erano bellissime sulla libertà, sull’amore per sua moglie e i suoi nipotini, sulle notti in cella. Tanti di loro hanno una nostalgia incredibile delle loro famiglie e anche un desiderio grande di perdono…Ho visto quanto per i carcerati siano fondamentali una visita, un cambio di routine, i nostri sorrisi. “ Le periferie esistenziali non sono dall’altra parte del mondo. Sono nelle nostre città, vicino a noi ! Soprattutto dove c’è un carcere!” Un altro modo originale per visitare i carcerati è stato messo in atto dalla Diocesi di Lione in Francia. Attraverso la radio diocesana, una volta alla settimana, è previsto un programma che interagisce direttamente con il carcere e i carcerati. La trasmissione, oltre ad essere molto ascoltata e seguita, è occasione per creare incontri, per riallacciare nuclei familiari, per sapere in tempi reali le condizioni di vita e salute dei propri cari detenuti. Tutto questo fa sentire la Chiesa vicino alla realtà di sofferenza, di solitudine e di travaglio di chi è in carcere. Qualcosa di simile non potrebbe nascere anche nelle nostre Diocesi?
Padre Rosario Messina
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