Anatomia della tristezza

Di p. Arnaldo Pangrazzi in Missione Salute N.6 Novembre Dicembre 2021

La vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama.
Ci lasciamo dietro una scia di dolore (V. Hugo)

La precarietà dei legami e l’inevitabilità dei distacchi genera tristezza e la presenza accentuata di questa emozione tende a riflettersi sul corpo, abbassando le difese immunitarie – con il rischio di contrarre malattie – e spegnendo l’energia vitale, come confermano le seguenti espressioni: “Ho il cuore spezzato”; “Vedo tutto nero”; “Ho il cuore in gola”; “Non sto in più in piedi”.

La postura stessa di chi è triste annuncia prostrazione: corpo curvo, fronte corrugata, sguardo spento, voce tenue o lamentosa, respiro corto, lacrime o singhiozzi, dolori muscolari, lentezza nei movimenti. Una tristezza temporanea o passeggera è benefica e si lenisce facendo un bel pianto, confidandosi con qualcuno, ritirandosi dalla scena, facendo ricorso ad attività fisica e/o tuffandosi nel lavoro.

Il problema si pone quando l’emozione si cristallizza e sfocia nella depressione, richiedendo psicoterapia o farmaci. Con frequenza, la persona triste è succube di sensi di colpa e palesa sbalzi di umore, atteggiamenti passivi, difficoltà sociali e relazionali, incomunicabilità e demotivazioni.

La sensazione di essere inadeguato e/o incompreso si ripercuote sulla salute anche con sintomi quali: affanno respiratorio, mancanza di appetito, insonnia, diminuzione della temperatura corporea e aumento di sensibilità al freddo.

Percorsi positivi

La tristezza, in sé, non è né positiva né negativa, dipende da come è gestita: può contribuire a vivere le relazioni in  maniera più profonda o sfociare in comportamenti problematici.

Esaminiamo, innanzitutto, i benefici di questa emozione, riconoscendo che il suo primo frutto è la compassione. La vocazione di molti buoni samaritani (medici, infermieri, psicologi, sacerdoti, volontari…) nasce, spesso, all’ombra della tristezza che si prova dinanzi al patire degli altri e dal bisogno di alleviarla attraverso il proprio intervento.

Un secondo frutto della tristezza è il dono dell’introspezione. Chi è triste si guarda dentro, ricorda il passato e riflette su come districarsi dalla prigione dei suoi umori.

Un terzo frutto della tristezza è il bisogno di condivisione. Quando si prova un dispiacere o ci si sente soli, si avverte il bisogno di contattare una persona amica per lenire il peso di queste emozioni.

I gruppi di aiuto mutuo aiuto hanno lo scopo di promuovere la condivisione e la guarigione delle persone ferite.

Un quarto frutto della tristezza è il bisogno di intimità. Inizialmente, quando si è addolorati o mortificati, si è portati a distanziarsi dal coniuge, amico o collega. Dopo un tempo di ritiro, il magone della solitudine spinge a riallacciare i rapporti, cicatrizzare le ferite e sperimentare di nuovo la vicinanza. Questo obiettivo si raggiunge con l’umiltà, lasciando cadere l’orgoglio e perdonandosi a vicenda.

Un quinto frutto della tristezza è la creatività. Molte persone trasformano la tristezza in espressioni creative, quali scrivere poesie, dipingere, comporre musica, ideare cose artistiche. Creatività intesa come capacità di generare “cose nuove” sublimando il proprio cordoglio.

Percorsi problematici

I modi controproducenti di gestire la tristezza riguardano:

L’isolamento e l’incomunicabilità: questi comportamenti possono disturbare i rapporti, acutizzare il travaglio, consumare preziose energie mentali e psichiche.

L’ abbandono al pessimismo o al vittimismo: i soggetti filtrano gli eventi e le relazioni in un’ottica di catastrofismo e insoddisfazione cronica.

La tendenza a rifugiarsi nel sogno e nella fantasia, per compensare la noia o le presenza percepite banali o non rispondenti alle proprie attese.

L’inclinazione alla depressione dinanzi ai disappunti di un’esistenza orfana di speranza.

Il rischio che il crescente disagio interiore si trasformi in problemi mentali e psichici che richiedano l’assistenza sanitaria.

Un’energia umanizzante

Illudersi di eliminare la tristezza è come pretendere di eleminare la notte dal giorno. Goethe affermava che: “Se non hai mai mangiato con le lacrime agli occhi, non conosci il sapore della vita”.

La tristezza ha molto a che fare con la vita, l’amore, gli eventi incresciosi, le delusioni nel rapporto con Dio, gli altri e se stessi. Dove c’è amore c’è dolore e il dolore purificato si trasforma in accresciuta capacità di amare.

Essere umani vuol dire offrire ospitalità a questo sentimento che serve a renderci più compassionevoli e sensibili alla vulnerabilità proprie e del mondo circostante.