SINODALITÀ IN PROSPETTIVA CAMILLIANA

Nella nostra attuale e quotidiana esperienza di vita camilliana, mi sembra che il tema della ‘sinodalità’, con i paradigmi e le immagini che ci vengono proposti, oggi, dalla più ampia riflessione ecclesiale, non sia stato diffusamente tematizzato.

Tuttavia, non tematizzare alcuni atteggiamenti o stili di vita non vuol dire necessariamente non viverli.

Papa Francesco, a conclusione del suo discorso ai membri (consacrati e laici) della famiglia carismatica camilliana, durante l’udienza concessa, oramai quasi quattro anni fa, il 18 marzo 2019, offriva questa felice sintesi sul tema sinodale: “vi incoraggio a coltivare sempre tra voi la comunione, in quello stile sinodale che ho proposto a tutta la Chiesa, in ascolto gli uni gli altri e tutte e tutti in ascolto dello Spirito Santo, per valorizzare l’apporto che ogni singola realtà offre all’unica Famiglia, così da esprimere più compiutamente le molteplici potenzialità che il carisma racchiude. Siate sempre più consapevoli che «è nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 130). Nella fedeltà all’ispirazione iniziale del Fondatore e delle Fondatrici, e in ascolto delle tante forme di sofferenza e di povertà dell’umanità di oggi, saprete in tal modo far risplendere di luce sempre nuova il dono ricevuto; e tante e tanti giovani di tutto il mondo potranno sentirsi da esso attirati e unirsi a voi, per continuare a testimoniare la tenerezza di Dio”.

Il termine ‘sinodalità’ affonda le sue radici nel vocabolo greco synodos, una parola antica nella tradizione della Chiesa. Composto dalla preposizione σύν, ‘con’, e dal sostantivo ὁδός, via, ‘sinodo’ indica il ‘cammino’ compiuto insieme dal popolo di Dio e richiama l’impegno e la partecipazione dell’intero popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa.

Si tratta di camminare nella stessa direzione, promuovendo la convergenza delle idee e delle azioni e coltivando l’unità nella diversità, l’unità dello spirito nel vincolo della pace (cfr. Ef 4, 3).

Se ci lasciamo accompagnare dall’immagine del ‘sinodo’ intesa come esperienza del camminare insieme lungo la stessa strada, come camilliani, dobbiamo porci alcune domande molto concrete.

 

  1. Lungo quale strada camminare insieme?

 La via maestra da percorrere rimane la nostra magna charta costituzionale. Nella Costituzione e nelle Disposizioni Generali dell’Ordine alcuni termini – nelle loro diverse sfumature lessicali e grammaticali – che ci possono aiutare a declinare la specificità sinodale camilliana sono insistentemente ripetuti: ‘insieme’ ricorre 17 volte; ‘comunione’ 9 volte; ‘collaborazione’ 9 volte; ‘missione’ 10 volte; ‘condivisone’ 8 volte; ‘ascolto’ 5 volte; ‘discernimento’ 3 volte; ‘condivisione’ 3 volte.

Le coordinate per una vita camilliana emergono con grande evidenza: vivere la vita comune orientata alla carità; condividere l’unico carisma; assumere insieme l’identica missione, secondo i doni propri di ciascuno e il servizio richiesto dall’Ordine (cfr. Cost. 14); trattare tutti insieme i problemi di maggiore importanza riguardanti la vita e le attività della comunità (cfr. Cost 19); con apertura e fiducia verso tutti, facilitare il dialogo con i singoli religiosi, per scoprire insieme la volontà di Dio e stimolare la fedeltà agli impegni della vita religiosa (cfr. Cost. 23); inserire le nostre attività in quelle della Chiesa universale e delle Chiese locali, in coordinazione e la collaborazione con altri istituti religiosi, con il clero diocesano, con i laici e le associazioni di apostolato (Cost. 57); ricercare la fedeltà al carisma e il rinnovamento del ministero, in sintonia con lo spirito del Fondatore e le istanze della inculturazione (Cost. 58).

Se la sinodalità si intende e si vive non tanto come un metodo più o meno democratico o una moda attuale, ma come la dimensione dinamica, la dimensione storica della comunione ecclesiale, allora facilmente si può anche intuire quali siano i limiti personali e istituzionali che fratturano la strada comune e ne rallentano il cammino fino alla sedentarietà. Anzitutto, la ricerca di spiritualità del benessere o del confort individuale, nella quale magari si nomina ancora Dio, ridotto però a qualcosa di intimistico, a un’impersonale rappresentazione dell’oltre… È una spiritualità senza dimensione comunitaria né tantomeno ecclesiale, senza esigenze di concrete relazioni e impegni fraterni, che si nutre invece di esperienze soggettive prive di volto, privilegiando una ricerca interiore, e/o formativa, e/o ministeriale narcisistica.

Parafrasando il comando rivolto da Dio ad Abramo, quello da cui ha origine ogni storia di salvezza, “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre” (Gen 12,1), la parola di Dio gli chiede di uscire, di andare, di lasciare tutto ciò che sta intorno a sé, per muoversi verso altre terre, altri orizzonti; e in questa uscita anche da se stesso, egli è chiamato ad andare tra le genti, per portare a tutti la benedizione. Il movimento centripeto del viaggio interiore ha invece finito per assorbire e neutralizzare il messaggio decisivo: “Va’, esci da te stesso!”.

Questa attitudine, contraddicendo in tal modo il messaggio biblico, secondo il quale si cerca Dio se si cerca l’uomo, si crede in Dio se si crede anche negli altri, si ama quel Dio che non si vede se si amano anche gli altri che si vedono (cf. 1Gv 4,20), rischia di compromettere anche il nostro ministero di misericordia verso i sofferenti. Qual è oggi, lo spirito di san Camillo che dovrebbe animare e motivare la nostra vocazione personale e comunitaria; qual è l’intensità mistica, l’alta temperatura dell’anima che in san Camillo gli permetteva di curare – toccando il malato e non delegando esclusivamente ad altri il ‘tocco’ del malato – veramente ‘ogni’ uomo e ‘tutto’ l’uomo?

Qual è la motivazione intima che gli permetteva di toccare un corpo debole, fragile, malato, morente ma contemporaneamente di sfiorare l’anima di quella persona?

 

  1. Con quale stile camminare insieme?

 La persona che desidera percorrere agilmente, lunghi tratti di strada intuisce che camminare con bagaglio leggero, o meglio, solo con il ‘bagaglio a mano’, è la strategia più performante. Se poi, questo stile agile viene assunto da tutti i compagni di cammino, le tappe da organizzare, le salite da affrontare, gli intoppi da risolvere saranno un’opportunità per crescere nella duttilità e nella resilienza.

Con questa leggerezza, soprattutto di cose e di strutture, sarà più immediato – perché meno sovra strutturato – individuare i bisogni, scendendo dentro le necessità altrui e chi è più affaticato o arranca potrà appoggiarsi con fiducia sugli altri compagni di marcia.

La meditazione della lettera testamento di San Camillo può offrire delle intuizioni forti su un elemento basilare per costruire la sinodalità camilliana e per non annacquare il nostro cammino iniziato come ‘pellegrini dell’Assoluto’, riducendolo ad viaggio tipico dei ‘turisti del sacro’: “…dobbiamo con ogni esatta diligenza e spirito mantenere la purezza della nostra povertà… perché tanto si manterrà il nostro istituto, quanto la povertà sarà osservata ad unguem (fino all’unghia= alla perfezione)”.

La povertà così insistita da San Camillo, risulta essere un incomparabile indicatore dello stato spirituale, non solo nella storia della Chiesa, ma anche nella storia individuale di ciascuno di noi, in particolare come camilliani. Quali sono, nel concreto della nostra vita, gli elementi che mostrano se viviamo o meno nello spirito di questa prima beatitudine? In cosa consiste vivere da “poveri”?

Il povero di spirito accetta che Dio gli penetri dentro e sconvolga la sua esistenza, pronto a ri-programmare la sua vita per seguire le proposte di Dio. Noi diveniamo poveri quando ci liberiamo dalla mentalità egocentrica, dallo spirito di onnipotenza, quando uniamo le nostre energie a quelle altrui e accettiamo di lavorare per un progetto anche se non è stato ideato da noi; quando aspiriamo ai valori e non alle cose; quando sappiamo possedere e donare senza creare dipendenze.

È nella fedeltà alla premura verso i poveri che si costruisce il futuro di noi camilliani. Ma non si può essere dalla loro parte se non abbiamo un cuore liberato da Dio. Occorre essere liberi per mettersi dalla parte di chi non ha voce per farsi ascoltare; bisogna non essere legati da alcuna realtà, per essere liberi da forme di ricatto o di seduzione; liberi per amare in maniera liberante; liberi per lasciarci continuamente interpellare dalla voce di Dio, che annuncia la liberazione con l’avvento del suo Regno.

La società di oggi provoca la vita di sequela di Gesù, in particolare, con “un materialismo avido di possesso, disattento verso le esigenze e le sofferenze dei più deboli” (Vita consecrata 89).  Noi siamo chiamati a rispondere con la sfida della povertà evangelica “spesso accompagnata da un attivo impegno nella promozione della solidarietà, della giustizia e della carità” (Ivi, 89).

Questo stile sinodale dice lo stile stesso di Dio: è segno di una presenza che non si impone, è ombra che accarezza e non travolge, è rifugio che protegge ma non divide né separa.

È quindi profezia! Stare accanto da ‘poveri’ al prossimo ‘povero’, soprattutto fragile e malato, mostra la bellezza di una esistenza senza muri né chiavistelli, che chiudono e impediscono la confidenza ed assicura che nella sofferenza è bene sostare condividendo piuttosto che manipolando.

 

  1. Quali i nostri compagni di strada e i nostri ‘destinatari’?

Le nostre origini carismatiche sono di matrice sinodale. La prima e sorgiva profezia camilliana risiede nell’intuizione di san Camillo di raggruppare una compagnia di uomini pii e dabbene che per amor di Dio servissero i malati. È attorno a questo nucleo carismatico e spirituale incandescente che l’Ordine nel corso dei secoli, ha risposto alle fibrillazioni centrifughe della storia, riaffermando il valore dell’unità e del camminare insieme.

Nel cuore del cammino sinodale, dobbiamo chiederci se stiamo realmente camminando insieme, sinodalmente con i poveri, i malati e i sofferenti. Questi fratelli sono per noi soggetti, cioè, compagni nel cammino di evangelizzazione.

Realmente noi cresciamo nell’accompagnarci nella vita di tutti i giorni reciprocamente? O loro sono soltanto i destinatari della nostra attenzione pastorale? Cioè siamo ancora noi che dispensiamo generosamente i nostri beni, convinti del loro stato di bisogno e, non piuttosto, siamo anche noi mendicanti di attenzione, di reciprocità, di compagnia, e di sostegno?

 

  1. Verso quali obiettivi conduce questo cammino condiviso?

Questo incedere sinodale dovrebbe implementare e radicare la nostra consapevolezza attraverso una fattiva co-partecipazione nella riflessione e nella progettazione del presente e del futuro del carisma camilliano.

Noi ci siamo quasi abituati a parlare di collaborazione soprattutto a partire dalla nostra condizione attuale di bisogno e di necessità, a motivo della persistente crisi vocazionale interna e della progressiva riduzione delle risorse esterne.

La sinodalità invece dovrebbe animare in noi una profonda conversione ‘culturale e metodologica’ affinché la nostra ricerca di cooperazione e di condivisione non sia solo ricerca di ‘manovalanza’ ma un autentico confronto con la novità che l’alterità porta sempre con sé.

Tale cammino dovrebbe strutturarsi ed incrociarsi a più livelli:

  • Collaborazione inter congregazionale (almeno tra espressioni carismatiche similari) per crescere nel nostro senso di appartenenza ecclesiale;
  • Collaborazione inter provinciale, nelle diverse aree geografiche di province e delegazioni, per crescere nella reciproca conoscenza ed aumentare il senso di unità nell’Ordine;
  • Collaborazione con il mondo professionale della salute e della malattia, per crescere nella nostra formazione acquisendo competenze, finalizzando un servizio sempre più qualificato per la persona malata;
  • Condivisione di strutture, risorse e progetti, superando la visione, spesso miope, di progetti personali o di piccole elite, per liberarci da identificazioni personali con tali realtà che alla fine invece di liberare nuove idee e sane energie, ci costringono dentro delle cornici esistenziali e ministeriali sempre più datate.

 

È sinodale, dunque, un Ordine camilliano che:

  • cresce nell’amore e nella testimonianza di fede nella misura in cui pone al centro della sua vita e di ogni azione pastorale l’ascolto assiduo della Parola di Dio pregata e vissuta individualmente e comunitariamente;
  • con l’orecchio del cuore si mette in ascolto – condividendole – delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini e delle donne di oggi, dei poveri soprattutto – che sono la carne di Cristo – e di tutti coloro che soffrono;
  • si pone in atteggiamento di uscita missionaria e, nelle sue varie componenti, cammina insieme, con stile sobrio fraterno;
  • ascolta la voce dei laici e delle laiche non per concessione, ma per diritto, stimolando e promuovendo la maturazione degli organismi di partecipazione alle scelte e al ministero di misericordia;
  • guarda al mondo di oggi – soprattutto nell’ambito della salute, della medicina, della bioetica, etc… – con discernimento ma con simpatia, senza paura, senza pregiudizi, con coraggio, alla maniera di Dio che, sentendo suoi i dolori, le gioie e le speranze dell’umanità, «è sceso» a liberarla (Es 3,7-8);
  • sa dotarsi di strumenti e strutture che favoriscano il dialogo e l’interazione tra tutti i soggetti, assumendo la responsabilità di annunciare il Vangelo della Vita, in un modo nuovo, più consono a un mondo e a una cultura della vita profondamente mutati.

Non amo molto l’immagine del “guado” attribuita alla Chiesa, e in senso traslato al nostro Ordine camilliano, se questo vuol significare che siamo come chi si trova lontano dalle rive, insicuro, magari timoroso di affogare. Preferisco invece l’espressione che usa il Concilio Vaticano II, citando Sant’Agostino: «La Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga».

La vera “altra riva”, il luogo dell’approdo, non è un nuovo assetto, nuove strutture, l’assunzione di nuove strategie pastorali: è l’incontro con il Veniente. Anche il nostro Ordine camilliano vive il suo pellegrinaggio nel tempo con speranza e affrontando i vari passaggi con fiducia, convinto che ogni passaggio, e anche ogni difficoltà, è un’occasione per crescere nella fedeltà al Signore e al Vangelo, nella sua mediazione concreta offerta dal nostro carisma specifico.

È difficile dire come saremo nel futuro. Probabilmente saremo meno numerosi – almeno in alcuni contesti geografici che tradizionalmente sono stati generatori di storia camilliana! – più forse anche meno sospinti dalla tradizione ma più mossi dalla convinzione, più preoccupati della nostra coerenza carismatica che del nostro affermarci nella storia.

Credo che ogni vero rinnovamento delle nostre comunità camilliane nasca da un riconoscimento più intenso della centralità di Gesù, buon samaritano, nella nostra vita personale e comunitaria.

Anche il nostro Ordine, parte viva della Chiesa, come ogni realtà ecclesiale, è un poliedro dalle molte facce e le forme che può assumere nel tempo sono diverse, ma tutto proviene sempre da Gesù Cristo e deve condurre sempre a Gesù Cristo!

p. Gianfranco Lunardon