Camillo de Lellis e la spiritualità cappuccina

In “San Camillo e i suoi amici”, Rubettino Editore 

Camillo de Lellis e la spiritualità cappuccina di Accrocca Felice pp. 137-153

Camillo de Lellis, istintivo e sanguigno per natura, giocatore incallito fino a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze amare della dipendenza dal gioco, nacque definitivamente alla vita di fede in un convento cappuccino. Ridottosi in miseria per via delle carte, costretto a mendicare per non morir di fame, fu alla fine condotto da un buon uomo di Manfredonia, Antonio Nicastri, presso i Cappuccini di quel luogo, il cui convento era allora ancora in fase di completamento: il giovane vi fu impiegato come uomo di fatica, potendo così evitare l’umiliazione della mendicità, grande per lui, nobile di nascita, e guadagnarsi il pane con le sue stesse mani.

Una piaga decise del suo futuro

Il 2 febbraio 1575, nel percorso che lo riconduceva a Manfredonia dal convento di S. Giovanni Rotondo, il giovane sanguigno proruppe in un pianto liberatorio che segnò per lui il giorno della rinascita. Tornato a Manfredonia, chiese al guardiano, p. Francesco da Modica, di poter indossare subito il saio; gli fu chiesto di attendere, poiché i superiori maggiori, cui spettava il discernimento ultimo in quella questione, erano occupati in vista del Capitolo generale, che si sarebbe tenuto a Pentecoste.
Il nuovo Ministro generale, p. Girolamo da Montefiore, iniziò proprio dallaPuglia, e da Manfredonia, la sua visita all’Ordine: Camillo presentò dunque a lui la sua richiesta, che il Ministro accolse, inviandolo nel convento di Trivento perché potesse farvi il suo noviziato. Ma una piaga che già da tempo lo faceva sul collo del piede gli impedì di proseguire oltre: a motivo di essa fu dimesso dal noviziato dal p. Giovanni Maria da Tusa, Ministro della Provincia di Puglia. Recatosi a Roma, all’ospedale di S. Giacomo, per guarire da quella piaga e poter così tornare tra i Cappuccini, come gli era stato promesso qualora avesse ottenuto la guarigione, giacché solo a motivo di essa egli era stato dimesso dall’Ordine. Rimase all’ospedale per tre anni e otto mesi, dopo di che, constatata la chiusura della piaga e non facendo conto dei consigli del suo confessore, don
Filippo Neri, che inutilmente aveva tentato di dissuaderlo dal proposito, chiese ancora allo stesso p. Giovanni Maria da Tusa, nel frattempo di stanza a Roma quale procuratore dell’Ordine, di poter rientrare in noviziato. La sua richiesta fu accolta ed egli fu inviato di nuovo al noviziato, questa volta nel convento di Tagliacozzo.
Pure in quella nuova dimora, come già a Trivento, Camillo, assunto il nuovo nome di fra Cristoforo, visse con l’ardore di fede del convertito, ma la sua gamba tornò ancora a impiagarsi. A tal proposito il p. Ludovico da Ascoli, vicario del convento, offrì questo prezioso ricordo:

Gli dissi un giorno io in particolare stanto con esso a spandere li panni, che haueamo lauati, che egli non hauerebbe potuto resistere nella nostra Religione per l’asprezza
dell’habito, et infermità della sua gamba, e per questo l’esortauo, che hauesse a pigliare altra uia, del che ne dimostraua dispiacere grandissimo di partirsi.

Trascorsero pochi giorni da quel fatto, che i padri del noviziato furono costretti a dimetterlo ancora, e questa volta definitivamente. Di quest’ultima sua permanenza a Tagliacozzo ebbe a dire lo stesso Ludovico da Ascoli:

Io so asserì convinto ch’il detto Christofaro mentre fu nouitio de Cappuccini nel nostro conuento di Tagliacozzo, attendeva all’orationi, digiuni, discipline, et altri esercitij spirituali della Religione, e si confessaua, e communicaua due volte la settimana, con molta edificatione di tutti li padri, senza mai essersi sentito di lui scandalo, impatienza, disubidienza, o mal’esempio, anzi mi ricordo, ch’à me come vicario di casa di detto luogo, più volte disse la sua colpa in publico, come s’vsa fra noi, con molta umiltà, né mai fu renitente alle penitenze, e discipline, che sogliono dare li nostri superiori allinouitij per mortificarli, e so, che per nessun difetto di virtù, ò mancamento di costumi di
buon religioso, il detto padre Christofaro fù licenziato, ma solo per la piaga della gamba, la quale si mostraua incurabile, tanto più, ch’era continuamente toccata dall’habito, e
questo è quanto posso dire per la verità, perché l’ho visto, e come superiore l’hò trattato,sono informato di quelle cose, ch’occorsero in detto conuento à quel tempo, e se bene c’erano molti padri, che haueriano potuto deporre l’istesso, come frà Bartolomeo di Lanciano, frà Paolo di Tagliacozzo, et altri, con tutto ciò, perché sono morti, non so
ch’altro lo possa deporre.


La dimora di Camillo tra i Cappuccini è rimasta incisa nella memoria dell’Ordine, in quanto l’annalista Zaccaria Boverio da Saluzzo, mutuando essenzialmente il dettato della vita scritta dal p. Sanzio Cicatelli, l’incluse negli Annales Minorum Capuccinorum, assicurandole in tal modo sopravvivenza in ambito serafico. Essa peraltro offriva ai Cappuccini l’occasione di poter vantare potremmo dir così una primogenitura spirituale rispetto alla famiglia religiosa che dal loro antico novizio aveva preso vita.

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