Fratelli d’ebola: il ritorno in Italia di fr. Luca Perletti

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di fr. Luca Perletti

Da alcuni giorni sono rientrato in Italia dopo 5 mesi in Sierra Leone. Sono stati mesi intensi di pianificazione e di avvio delle attività che si focalizzano – dopo l’installazione del Laboratorio presso l’Ospedale Holy Spirit di Makeni – nella formazione di counsellor attraverso un programma teorico e pratico; nel sostegno psicosociale a 400 famiglie e nella ristrutturazione di alcuni centri sanitari di base (PHUs), primo porto d’entrata nel sistema sanitario del Paese. A metà del percorso (il progetto terminerà a dicembre) mi permetto alcune osservazioni in linea di continuità con la riflessione precedente sul tema della resilienza, quale capacità naturale di questo popolo a far fronte a mille avversità.

Questa riflessione prende spunto dalla domanda sulla rilevanza del nostro intervento chiamato psicosociale poiché unisce un aiuto umanitario (nella forma del cash transfer) a quello puramente psicologico. Ha senso – mi chiedo – occuparsi di questa dimensione o non è un’altra delle nostre “ricchezze” esportate in una cultura aliena? Questo mio contributo non ha alcuna pretesa scientifica ma il valore di una riflessione personale con cui ho dovuto confrontarmi sul campo. Inizio allora dalle difficoltà incontrate – che in un certo senso sconsiglierebbero un intervento di sostegno psicologico – per poi, al contrario, rilevare che esiste un bisogno di esprimere emozioni spesso date per scontate e non trattate. Insomma, vorrei concludere dicendo che ha senso quello che facciamo. Lo faccio attenendomi a fatti ed esperienze vissute sul campo, riprese dal mio diario personale.

Le serate passate in compagnia con il superiore dei Saveriani a Makeni, P. Luis Perez (spagnolo), sono state una brezza d’aria fresca. In esse, si parlava e condivideva di tutto e di più: non solo cronaca ma anche riflessioni. Una sera abbiamo condiviso le difficoltà della inculturazione, delle sfide a far passare messaggi e tecniche estranee alla cultura locale. Questo è particolarmente vero per alcuni dei programmi dell’intero progetto di CTF. L‘approccio psicologico infatti usa concetti astratti (benessere o malessere; emozioni e sentimenti) che sono alieni a chi – per definirsi – deve fare riferimento a situazioni ed oggetti concreti. Non esiste uno stare bene separato dal corpo tanto che nella lingua locale non si usa chiedere “come stai?” ma “come sta il tuo corpo? perché questo – così concreto – è il primo rivelatore del benessere o del malessere. In altre parole, non esiste un concetto di benessere che sia separato dalla immediata, oggettiva e percepibile sensazione di presenza o di assenza di disturbi. Il nostro linguaggio europeo – abituato a concetti filosofici ed astratti – qui si trova a disagio perché non crea ponti di comunicazione ma solo confusione. Il buono, il bello, il bene ed il male, il benessere o il malessere non esistono se non solo tangibili. È una barriera a volte frustrante poiché domande che per noi appaiono scontate trovano come sola risposta espressioni attonite ed il silenzio. L’approccio psicologico basato sulla parola qui trova tutti i suoi limiti e la sua inefficacia. Non perché la cultura locale non comunichi: anzi, tutto è basato sulla comunicazione, non c’è forse altro popolo che tanto ne faccia uso, 20150509_122730attraverso descrizioni colorate e dettagliate di fatti e di avvenimenti. Semplicemente, la comunicazione locale non riesce ad astrarre ed ad andare oltre la realtà concreta, vissuta e descritta. Non mi addentro nella riflessione perché la incapacità di astrarre – se applicata alle scelte morali – rischia di non vedere il bene ed il male in sé e di considerare ogni singola scelta in base agli effetti o ai risultati ottenuti o sperati. Ci è capitato un caso interessante di questa natura in un gruppo di giovani adolescenti orfane dove la valutazione morale (ovvia per noi!) delle loro scelte non è stata così ovvia per il gruppo nel quale alcune accettavano la possibilità di “vendersi” se questo avesse loro permesso di sostenere la famiglia in difficoltà ed i fratelli orfani. Trascrivo dal mio diario di quel giorno: “Sono rimasto scioccato! Ho ammirato la libertà di pensiero di alcune ragazzine consapevoli che tenere in vita la loro famiglia a costo del proprio corpo vale la pena. Come posso permettermi di giudicare? Davvero ….’a partire dai più anziani, iniziarono ad andarsene, uno ad uno’”.

Un’altra difficoltà dell’intervento psicologico è legata a quella che mi è sembrata essere una caratteristica della cultura locale. Essa è caratterizzata dall’unicità, della unitarietà e della totalità (in inglese wholeness) così diverso dal nostro parcellizzare, creare compartimenti stagni, distinguere ciò che è fisico, psicologico, spirituale, sociale e così via. La nostra medicina, per fare un esempio, ha creato moltissime branche di sapere e di intervento mentre qui i curatori tradizionali (traditional healers) – ahimé! tristemente famosi in questa epoca di Ebola – curano il corpo e l’anima allo stesso tempo senza distinguere ciò che è biologico da quello che è mentale. Nel nostro programma di intervento psicologico abbiamo dovuto subito confrontarci con questa ricchezza culturale che vede un tutt’uno nelle varie dimensioni vitali, mentre noi – attraverso i nostri schemi e moduli – avevamo piuttosto impostato un approccio “a settori”. Noi siamo abituati a dividere secondo schemi mentre in questa terra tutto fa parte della vita in un fluire che non conosce separazioni o compartimenti. È impossibile tradurre concetti quali il “colloquio di sostegno” (tanto per fare un esempio) perché in questa cultura ricca di comunicazione, la stessa è convenevole, pratica e persino “di sostegno” allo stesso tempo. In un questionario divulgato tra le 400 famiglie parte del programma è stato davvero difficile chiedere loro di descrivere il tipo di incontro avuto con il counsellor di riferimento poiché ogni singolo incontro era tutto nello stesso tempo né avrebbe potuto ridursi a trattare solo del presunto malessere o disagio che è inscindibile dalla vita concreta e dalla necessità di trovarvi risposte e soluzioni. Insomma, mentre noi distinguiamo i fratelli e le sorelle della Sierra Leone integrano! Ed è comprensibile, perché la loro scala di bisogni inizia dal gradino più basso …la fame, la sopravvivenza, le urgenze della vita. Mi rendo conto che è una grande fortuna quella di trovarmi a vivere in una cultura che mi ha trasmesso secoli di ricchezze di pensiero ed in una società che mi permette di andare oltre i bisogni di base e poter soddisfare quelli “più alti”. Chi non ha questa fortuna è costretto a metterli tutti assieme e cercare di darvi una risposta a partire da quelli più impellenti ed imprescindibili! In 20150617_140254sintesi: difficoltà a astrarre / concettualizzare e impossibilità a “compartimentalizzare” rendono difficile attuare un programma di sostegno puramente psicologico.

Nondimeno, la componente sociale lo rende efficace e questo spiega il successo che sta avendo, successo misurabile in più curata presenza ai raduni; nella maggiore attenzione a sé (abbigliamento); nell’ascolto attento degli altri…..insomma, partire dai bisogni di base non è contradditorio del processo di sostegno psicologico ma ne è componente integrale!

Vorrei qui avviarmi alla conclusione e dire che ciò che CTF fa ha senso. Lo faccio traendo a piene mani dal mio compagno di viaggio, il diario giornaliero nel quale ho annotato esperienze e riflessioni. Mi riferisco a commenti dell’ultima settimana.

“Questa settimana ho avuto modo di confrontarmi sull’efficacia del nostro progetto a partire da critiche che mi sono state mosse da alcuni sacerdoti della Diocesi di Makeni. Non scarto le critiche ma mi offrono materia di riflessione in particolare su questi due punti: il sostegno economico “a goccia” (cash transfer) a detta di alcuni genera dipendenza e non sviluppa la capacità imprenditoriale (a); il successo del progetto (evidente aumentato benessere) è legato all’aiuto economico (b). Si tratta di osservazioni pertinenti e legittime che sfidano la mente a sviluppare un “pensiero laterale” (espressione inglese lateral thinking). Di fronte alla prima osservazione, la risposta immediata è che il nostro non è un progetto umanitario e di sviluppo: l’aiuto economico è solo un atto liberale a sostenere le fatiche di chi si è trovato a gestire le situazioni complesse legate a Ebola. Tuttavia – dalle risposte e dalle condivisioni – emerge che l’uso del denaro è finalizzato a quelle spese essenziali, ma messe in seconda linea dalle ristrettezze economiche, quali l’educazione e la salute. Le risposte dei capofamiglia delle 400 famiglie selezionate confermano gli studi sul Cash transfer secondo le quali esso genera capacità di spesa nei settori della educazione e della salute fino al 75% dei casi, senza contare che questo metodo è rispettoso della dignità individuale. […].

[…] In merito alla seconda osservazione, non sono così ingenuo da pensare che il nostro intervento possa prescindere – nel considerarne l’evidente impatto – dall’aiuto economico. Ma non minimizzo nemmeno il ruolo della presenza costante dei counsellor, dei raduni mensili di mutuo aiuto, della solidarietà e della vicinanza che si genera. Abbiamo messo assieme le condizioni perché questo avvenisse e se il benessere è evidente non resta che prenderne atto con piacere. La domanda qui è se l’aiuto economico ne sia il fattore trainante e determinante. Non c’è dubbio che lo sia laddove i bisogni basilari sono impellenti e non esiste un welfare sociale di protezione. Va rispettata la scala gerarchica dei bisogni e non potremmo provvedere a quelli emotivi se prima non avessimo preso in considerazione e soddisfatto quelli di sussistenza. Raggiunto un certo benessere, si è sfidati a rafforzare l’autostima (self valuing) e a costruire stabilità (self reliance), così che il temporaneo beneficio diventi duraturo e sostenibile. Questa parte del programma è quella in cui vogliamo impegnarci nel secondo semestre, trasformando la resilienza attuale in una forma stabile di valorizzazione di sé e di capacità di micro economia.

20150623_150221Allo stesso tempo – ed il gruppo di Lungi, Parrocchia St. Joseph lo ha dimostrato – non c’è aiuto economico che possa spegnere il fuoco delle emozioni. Puoi dare tutti i soldi che vuoi, ma non potrai mettere a tacere le emozioni causate dalla morte dei propri cari, morte così improvvisa e privata della possibilità di adeguato lutto e distacco. Sempre c’è e sempre ci sarà spazio per una parola di conforto; per l’ascolto; per asciugare una lacrima quale integrazione del mero aiuto economico. Anche quando la vita preme con le sue urgenze ed impellenze, l’anima non cesserà di reclamare uno spazio tutto suo dove poter piangere i cari che non sono più e trovare un senso ai molti ‘perché?’ inevasi”.

Insomma, un progetto psicosociale ha senso solo se integra diverse dimensioni tali da costituire un approccio olistico in linea con il senso di unità e di unitarietà di questa gente! Sarà così in grado di contribuire a rafforzare il destino della gente della Sierra Leone di vivere attraverso l’inguaribile ed irriducibile resilienza che la fa rialzare dopo ogni colpo; la sua gioia e felicità stampata sui volti sorridenti e pronti ad erompere in canti di gioia; la sua apertura alla vita nel dono della accoglienza dei più deboli, i bambini, di cui nessuno mai sarà orfano; e la sua capacità di fare posto al nuovo, allo straniero ed al diverso.