Padre Rebuschini: egli mi è testimone

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Oggi, 10 maggio si celebra la memoria del Beato Enrico Rebuschini, camilliano. Per questa occasione vi proponiamo un brano tratto dagli Esercizi spirituali alla scuola del Beato Enrico Rebuschini di p. Domenico Casera

C’è nella lingua italiana l’espressione: passare il testimone. Il termine è sportivo, appartiene al gioco della staffetta: è quel bastoncino che il corridore deve consegnare al compagno di squadra che corre la frazione successiva della gara, testimoniando così la regolarità e la completezza del percorso. Applico il termini a p. Rebuschini. Quando, il 10 maggio 1938, rese la sua anima al Signore, egli passò il testimone della sua vita religiosa esemplare ai confratelli, perché poi a sua volta arrivasse fino a noi.

Di cosa, in particolare, ci è testimone p. Rebuschini? Più con l’esempio della vita che con le parole egli mi è testimone:

  • Di una risposta personale – e generosa, concreta, perseverante – alla chiamata di Dio alla vita religiosa. Rispondendo all’invito di Gesù «Venite e vedete dove abito» (Gv 1,39) gli apostoli entrarono nella casa di Gesù, un comune appartamento a Cafarnao. Quella prima volta rimasero con lui qualche ora. Poi ci pensarono e decisero di seguirlo. A quella stesa chiamata, rivolta a noi con modalità che appartengono alla nostra biografia personale, abbiamo risposto anche noi, e siamo entrati nell’una o nell’altra delle case dell’Ordine. Ci si chiedeva, al momento di deciderci, capacità di cogliere il momento di grazia costituito dalla chiamata e lucidità di discernimento. Oggi mi si richiede di essere fedele a quella che fu un’opzione fondamentale, di ravvivare la grazia della chiamata, di mantenerla efficiente e produttiva. Come è stato per Rebuschini.
  • Del significato da dare alla mia «sequela Christi», che non può ridursi a semplice risposta esteriore, ma deve inserirsi nella mia vita, assumerla veramente, coinvolgerla nella interezza, qualificare le mie intenzioni apostoliche, il mio essere nella Chiesa e nella società. […]
  • Di uno spirito di preghiera che non si restringa ai tempi forti della stessa fissati dalla comunità ma riempia di sé tutti i momenti della giornata, mantenga il contatto con Dio nell’assolvimento delle incombenze quotidiane, ci conservi alacri e sereni nel lavoro, raccolti in Dio quando usciamo di casa, o almeno non estranei a Lui nel decorso delle nostre giornate, fino a trascendere in esperienze mistiche che erano abituali in p. Rebuschini. Sr. Pernechele attesta: «Di mia scienza diretta so che pregava con intenso fervore, lungamente, che non dimostrava di avvertire le persone attorno a sé, alle volte non rispondeva alle chiamate, bisognava toccarlo. Tanto io che le consorelle della comunità abbiamo notato più volte che nell’oscurità della chiesa il suo volto appariva quasi illuminato».
  • Di una grande disponibilità per le persone concrete che vivono attorno a noi e si trovano in condizioni di bisogno, si tratti di confratelli afflitti da malattie o costretti ad attraversare gravi momenti di crisi; o di malati col peso della loro povertà spirituale, o morale, o materiale; o di «postulanti» che ci espongono le loro miserie e chiedono il nostro aiuto, o di uomini e donne della città che ci contattano per consiglio. P. Enrico aveva radicata l’attitudine dell’ascolto, si lasciava toccare dalle sofferenze e ansietà della gente, nessuna situazione di degrado materiale o morale poteva cancellare per lui la dignità dell’uomo, che andava sempre riconosciuta, onorata e soccorsa. […]
  • Di grande bontà, che non vuol dire bonarietà o facile cedimento al sentimentale, né manierismo patetico. Bontà attiva, bontà forza nobile e misteriosa che rende sopportabile la vita, bontà come comportamento comprensivo, disponibile ad ascoltare, a donare qualcosa di sé, a perdonare, quella bontà che ha qualcosa di arrestabile e dona rasserenamento e coraggio, vince le resistenze, non raccogli i torti e convince più di interi volumi di prediche morali. […]
  • Di serenità, che non significa imperturbabilità, né calma assoluta o impassibilità, nessuno spazio alle reazioni dei sentimenti, chiusura in sé stessi di fronte a domande senza risposta; […] serenità è rassicurazione, capacità di rendere distesi gli animi, di trasmettere consolazione e incoraggiamento, di stimolare sentimenti ottimistici, di alimentare la speranza anche con le ragioni della fede. […] P. Rebuschini sia per noi modello di quella serenità che dovrebbe appartenere alla struttura naturale e religiosa del nostro cuore.

 

D. Casera, Esercizi spirituali alla scuola del Beato Enrico Rebuschini, Velar, Gorle (BG), 1997, pp. 30-33

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