«Vorrei precisare che sono andato tra i lebbrosi non perché sono buono ma perché sono innamorato di Gesù Cristo»

II) Le tre le caratteristiche della sua santità

1) Il santo della carità verso gli ultimi

01-il-Dott.-Marcello-Candia1Ha vissuto nella sua vita la parola di Gesù: “Ogni volta che avete fatto questo ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matt. 25, 40). Marcello, innamorato di Gesù Cristo, vedeva nei poveri e nei lebbrosi l’immagine di Cristo: si inginocchiava di fianco a loro, li baciava, amava stare con le persone più umili. Nel 1966 l’ho accompagnato a visitare alcuni ammalati di lebbra di Macapà che erano ancora nelle loro capanne. C’era una vecchietta accudita dalla figlia, già sfigurata dalla lebbra, in una capanna dove il fetore di carne marcia e di pus toglieva il respiro. Dopo pochi minuti ho dovuto uscire all’aperto. Marcello si è inginocchiato accanto al letto dell’anziana signora, le parlava e poi hanno pregato assieme. “Vedi, se con l’aiuto di Dio non mi sforzassi di vedere Gesù in tutti i poveri che incontro, ritornerei subito in Italia. Pregando chiedo sempre questa grazia. Non è facile vivere qui, ma questa è la via che il Signore mi ha indicato e la percorro con la gioia che mi viene da Dio“.

Marcello si è stabilito a Macapà nel luglio 1965. A Milano viveva in un grande e ricco appartamento, con la cuoca-cameriera e l’autista a disposizione. In Amazzonia non aveva acqua corrente in stanza, i servizi e la doccia erano in fondo al cortile, e sul muro esterno c’era un rubinetto al quale Marcello doveva riempire una brocca d’acqua per lavarsi e farsi la barba. Mi faceva pena, in quel caldo umido. Gli ho chiesto se si è adattato alla vita di missione. Mi dice: “Quando mi viene la nostalgia della mia casa a Milano, penso a tutte le miserie che vedo ogni giorno fra i lebbrosi e i poveri di Macapà e mi ripeto: Chi ha molto ricevuto deve dare molto. Io ho ricevuto moltissimo, incomincio a rendere qualcosa a questi poveri che mi circondano e dovrò dare tutto“.

Il Servo di Dio non si accontentava di aiutare i poveri, voleva fare amicizia con loro, condividere la loro vita, essere per loro un fratello. “Quello che mi pare più importante nella nostra opera, mia e dei miei collaboratori, è il rapporto personale che abbiamo con le persone che hanno bisogno di noi. Non conta tanto l’ospedale che abbiamo costruito, le attrezzature, gli interventi medici, quanto far capire che lavoriamo non per loro, ma con loro, cioè con amore fraterno e con solidarietà umana. Se non ci fosse questo spirito, a cosa valgono la tecnica, i mezzi economici e tutto il resto? Per questo io dico sempre ai miei collaboratori che per servire bene i poveri ci vuole uno spirito religioso, una motivazione spirituale, di fede“.

Non era un paternalista, ma nemmeno un “pauperista”. Aveva un grande rispetto del denaro, che sentiva come dono di Dio per fare del bene: ne aveva e ne riceveva molto e sapeva amministrarlo bene, ma lo usava tutto per gli altri, non per se stesso. Però spendeva anche quanto era necessario per le sue opere: telefonate, telegrammi, aerei, taxi, doni ai benefattori; e per i poveri voleva sempre il meglio.

Adalucio Calado presidente dei lebbrosi a Marituba, che ho rivisto nel 1997 poco prima di morire, si commuoveva nel ricordare Marcello. Mi diceva: “Il dottor Candia non solo ci ha aiutati economicamente e con le opere sanitarie e sociali, ma ci ha voluto bene: in lui vedevamo l’amore di Dio anche per noi lebbrosi, rifiutati da tutti. Lo ricordiamo ancora come un santo, perchè faceva tutto per amore di Dio. Non cercava nulla per sè ma tutto per gli altri, i poveri, gli ammalati, noi hanseniani. Era eroico nella sua donazione al prossimo, commovente: lui ricco, colto e importante nel mondo, veniva a spendere la sua vita tra noi che non potevamo dargli nulla in cambio. E non per un motivo umano, altrimenti non avrebbe resistito, sarebbe rimasto deluso: ma solo per amore di Dio. Noi pensavamo: se lui è un uomo così buono, quanto più buono dev’essere Dio che ce l’ha mandato!”. E aggiungeva: “Ringraziava sempre di tutto, ma eravamo noi che dovevamo ringraziarlo. Lui diceva sempre che venendo fra i lebbrosi aveva ricevuto più di quello che aveva dato”.

2) Portava con gioia la sua pesante croce

I 18 anni d’Amazzonia (1965-1983) sono stati veramente per Marcello Candia una continua e dolorosa salita al Calvario, Per vari motivi di sofferenza, che in sintesi erano questi. Anzitutto è andato in Amazzonia nel 1965 a 49 anni, con un passato di uomo ricco e potente, proprietario e direttore di una grande industria con centinaia di dipendenti. Era, come si dice a Milano, “il padrone del valore” e pensava che, andando a “fare del bene”, avendo un bel progetto e tanti soldi per realizzarlo, non avrebbe avuto difficoltà. Ma l’Amazzonia del 1965 non era la Milano di quel tempo! I militari che comandavano in Brasile sospettavano di lui e gli mettono alle costole una spia incaricata di scoprire i veri motivi della sua strana presenza. Gli negano i permessi di costruzione, gli creano difficoltà nell’importazione di materiale da costruzione, lo umiliano facendolo aspettare ore in anticamera quando andava a chiedere il perché di tante lentezze.

Tante e atroci le sofferenze di Candia per realizzare i suoi progetti di bene. Vedeva le immense necessità dei poveri, voleva e poteva aiutare, ma le autorità militari non gli davano i permessi necessari, la burocrazia lo ostacolava. Quando l’ospedale di Macapà funziona nel 1968, Marcello pensa subito di iniziare un’altra opera e visita il lebbrosario di Marituba, nella foresta amazzonica ad una trentina di chilometri da Belem, conosciuto come “l’anticamera dell’inferno”, con circa 1800 lebbrosi in una situazione di degrado umano e sociale indescrivibile. A quel tempo il lebbrosario era come un carcere di condannati all’ergastolo, nel quale nessuno poteva entrare o uscire, un villaggio in foresta cintato e con guardie alla porta, in stato di abbandono. Il governo mandava cibo e medicine, ma in quantità insufficiente, il medico e le infermiere abitavano in città e andavano sporadicamente nella colonia.

Eppure, Marcello Candia, che voleva aiutare i lebbrosi, non otteneva il permesso di visitarli. Poi le autorità si oppongono alla costruzione del “Centro sociale città di Milano” e alla prima chiesa all’interno del lebbrosario con la residenza per il cappellano e le suore e alla ricostruzione muraria dei padiglioni della colonia, che erano fatiscenti. In quel clima caldo umido, i muri sembravano anch’essi colpiti dalla lebbra e crollavano a pezzi, i tetti di tegole sconnesse o di lamiera arrugginita e bucata lasciavano passare la pioggia. I poveri lebbrosi, in quell’ambiente, vivevano in un clima di litigi, violenze, oppressioni vicendevoli, disperazione. Povero Marcello! Per anni va avanti e indietro da Macapà a Belem, dove abitava presso i missionari del Pime e con l’aiuto di padre Antonio Cocco visitava le autorità civili e militari, per ottenere di poter redimere quella colonia dei lebbrosi!

In 18 anni di vita in Amazzonia fondò e finanziò, seguendole sempre da vicino, 14 opere di carità, di educazione, di preghiera. E’ facile immaginare le difficoltà che un uomo solo, che fra l’altro non aveva mai imparato bene il portoghese, ha incontrato per poter realizzare le sue iniziative di assistenza ai poveri, in un paese come il Brasile che proprio in quel tempo attraversava un’ondata fortissima di nazionalismo, sostenuto e sollecitato dalla dittatura militare che ad un certo punto sembrava volesse espellere tutti i missionari stranieri!

Il crollo fisico di Marcello Candia avviene nel maggio 1983. Continua a lavorare con particolare intensità, fin che parte da Belem per l’Italia il 10 agosto. Ricoverato alla Clinica S. Pio X dei Camilliani di Milano, vi muore il 31 agosto per cancro al fegato con metastasi ossea all’altezza del polmone destro.

3 – Il santo delle Beatitudini e della gioia

Sono due gli aspetti ben distinti della sua personalità: da un lato era sempre sorridente, gioioso, sereno, cordiale, ottimista, pronto alla battuta e interessato a quanto si poteva raccontargli o chiedergli; dall’altro, ho MCandia_002_rdax_260x384raccolto infinite testimonianze delle sue sofferenze che venivano dai malanni fisici e dalle prove morali che doveva affrontare. Nell’immortale romanzo del Manzoni (“I promessi sposi”, cap. IV), si legge di Fra Cristoforo: “Alla sollecitudine di carità, ch’era in lui come ingenita, s’aggiungeva quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni”. Un’espressione che spiega molto bene i tormenti di Marcello Candia.

Marcello fisicamente era un uomo robusto, integro, sano, resistente alla fatica. Il mal di cuore (cinque infarti e un’operazione al cuore), l’insonnia, le emicranie continue, il fulminante mal di fegato negli ultimi mesi erano tutte conseguenze di fattori esterni, quali le eccessive fatiche e sofferenze, l’acuta sensibilità che ingigantiva ogni affanno. Eppure, chi lo conosceva in modo superficiale od occasionale pensava di lui che, con tutti i soldi che aveva, non poteva avere molte preoccupazioni! Invece i suoi capitali li ha spesi tutti nei primi quattro o cinque anni di Amazzonia, nella costruzione e avviamento dell’ospedale di Macapà. Tutto quello che ha realizzato in seguito era certamente donato dalla Provvidenza di Dio, ma lui cercava aiuti e offerte. Tornava almeno una volta l’anno in Italia per questo.

Candia viveva le Beatitudini del Vangelo. La sua vita infatti era incomprensibile a chi lo giudicava come “una persona normale”: viveva nella verginità pur essendo un uomo affascinante; nella povertà pur essendo molto ricco (nell’ambiente misero dell’Amazzonia appariva un super-miliardario); nell’umiltà pur avendo tre lauree e potendo aspirare a posti di potere e di prestigio; nell’indigenza, pur possedendo mezzi economici per comprarsi tutto quel che voleva; in uno spirito di misericordia che perdonava non solo i militari e le autorità locali che lo affliggevano, ma gli stessi missionari che non lo capivano e a volte lo criticavano. Certamente si può applicare a Marcello Candia l’espressione di San Paolo: “Lieti nella speranza, forti nella tribolazione” (Rom. 12, 12).

E tutto questo era possibile perché pregava molto. Messa quotidiana, Rosario e tante preghiere e ore di adorazione. Dio gli dava la forza per una vita eroica, per amore di Dio e dei poveri, degli ultimi.