“Come vento impetuoso”: meditazioni II giorno esercizi spirituali

“Una questione di bellezza” (At 4, 32-35)

Il contesto immediato del testo biblico oggetto della meditazione è la preghiera di ringraziamento della comunità cristiana dopo la liberazione di Pietro e Giovanni (At 4, 23-31), che si conclude con una nuova Pentecoste (v. 31), con una rinnovata effusione dello Spirito che regala a tutti i presenti la capacità e la forza di annunciare il Vangelo senza paura, con franchezza.

I confratelli riuniti a Bucchianico per gli esercizi spirituali

I confratelli riuniti a Bucchianico per gli esercizi spirituali

Il segno della comunione

Il primo segno che andiamo a scoprire è quello della comunione.
Erano «un cuor solo e un’anima sola» (32) dice Luca della prima comunità. Luca, prima ancora di dire cosa facevano i primi cristiani, ci dice come lo facevano. Provavano a fare le cose insieme, mettendo in comune ciò che avevano. Avevano capito che, nell’originale matematica di Dio, ciò che si divide, in realtà si moltiplica, ciò che si sottrae si aggiunge. Non era gente preoccupata di fare troppo, ma di fare bene. Comprendeva bene l’importanza dello stile, e preferiva il gusto pieno del «lavorare con» al sapore acido del «lavorare contro». Gioiva per il bene dell’altro: e questo è già un pezzo di paradiso sulla terra. Quando il bene dell’altro, invece, ti fa diventare invidioso, geloso, irritato, quando ti fa sentire in credito col mondo intero, non abbastanza apprezzato o valorizzato, ecco che la vita diventa un incubo senza fine. Vivere in comunione, alla fine dei conti, conviene. È bello – nello stesso tempo – che altre pagine degli Atti ci mostrino anche tutte le fatiche e le lacerazioni di questa comunione. Ci viene ricordato, cioè, attraverso le cadute e i fallimenti della prima chiesa, che quello della comunione è sempre un dono prima che l’esito di uno sforzo, una grazia da ricevere e coltivare con grande disciplina e con grande fiducia. Perché questa comunione non appaia troppo astratta, un po’ aleatoria, fatta di grandi parole e di un pizzico di ideologia, di frasi fatte e di sentimenti senza sostanza, Luca ne esemplifica subito un contenuto concreto, anzi concretissimo. È un esempio che forse incontra non poche resistenze da parte di chi lo ascolta e lo legge: «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era tra loro comune». A monte, quindi, ci sta sempre una personale esperienza di fede. Un’esperienza che da senso e scopo alla propria vita. Che allarga il cuore. Che da la voglia di vivere.

Se a noi interessa prendere coscienza della necessità di inserirci nella realtà della vita fraterna, della comunione, e trasformare poi, questa esperienza di comunità, in una scelta motivata, convinta, di fede, abbiamo bisogno necessariamente di scoprire cosa sta al cuore della vita di fede; abbiamo bisogno di operare dei distacchi che questa esperienza inevitabilmente impone; abbiamo necessità di fare esperienza della gioia che la fede produce.

Scoperta, distacco, gioia.

Con questi presupposti la nostra esperienza di comunità può essere allora un’autentica esperienza religiosa. Direi, solo a queste condizioni. La comunità di cui ci occupiamo (che è la nostra realtà) nasce dalla fede ed è dono di Dio. Noi semplicemente la accogliamo o, più precisamente, offriamo le strutture attraverso le quali Dio ce la comunica. Un semplice sguardo, ancora, alla prima comunità di Gerusalemme fa scoprire con chiarezza quali siano queste strutture. Il brano, parallelo al nostro, del capitolo 2 ai versetti 42-48, che sarà pure questo idilliaco, contiene però qualche elemento indicativo e orientativo. In primo luogol’ascolto insieme della Parola (insieme, non ciascuno per conto suo). Si parla anche di “Apostoli” (il riferimento è al Magistero). Poi la “condivisione” nella vita, il tentativo di costruire relazioni fraterne, a tutti i livelli, compreso quello economico. Infine, il culto e la preghiera. La prima testimonianza consiste proprio nel fare esperienza di una comunità dove i diversi si sentono accettati, in comunione, senza per questo essere costretti a rinunciare alle loro peculiarità. Costruita su un dato di fede e di speranza, che fissano l’orientamento unificante del nostro vivere insieme, la comunità deve compiere un permanente sforzo di auto-formazione a vivere insieme, per creare un ambiente dove aspirazioni personali e comunitarie possano convivere e realizzarsi. C’è un continuo lavoro di adattamento e perfezionamento. Questo implica l’arte del dialogo, l’accettazione incondizionata dell’altro, lo scambio di esperienze, il ricorso al compromesso provvisorio pur di non rompere il cammino unitario (purché sia provvisorio). La comunità è il primo laboratorio dove ci si appropria e si perfeziona l’esperienza della fede e del servizio. L’esperienza di essere insieme, del fare qualcosa per qualcuno, diventa una proposta di accoglienza e di condivisione che genera nuova vita, che contagia l’ambiente in senso positivo. È un’esperienza di amore che genera stima, fiducia, uno stile di vita familiare che fa vivere con soddisfazione i bisogni di relazione, di operatività. Per capire ancora più profondamente, se ci confrontiamo ancora con il modello della prima comunità cristiana, l’esperienza degli Atti, vengono fuori dei pilastri su cui poggiare l’esperienza dell’”essere insieme”.

Anzitutto c’è un progetto (va chiarito qual è). È un po’ come la “regola di vita” (la nostra Formula) che dà il colore diverso dalle altre esperienze di comunità. Insieme al progetto c’è una virtù (intesa nella sua accezione di “forza” e di “energia”). È ciò che permette di realizzare il progetto. Questavirtù la potremmo identificare come “la radicalità evangelica” (fatta anche di disciplina, di osservanza, disponibilità, precisione…). Ma fatta anche di dignità, trasparenza, autorevolezza.Una comunità, poi, ha bisogno di un’anima (deve avere un cuore). Si esprime attraverso, diciamo, lo spirito di famiglia. C’è bisogno di accoglienza e di condivisione reciproca per fare esperienza di comunità. Infine, c’è un motivazione (è il mio “sì” fedele a Cristo, attorno alla Parola)     È chiaro che una comunità siffatta non ci porta in una atmosfera da favola. “E vissero felici e contenti” è un motto che non si può applicare a nessuna comunità. Anzi, se questa fiaba si dovesse realizzare, allora bisogna stare attenti: molto probabilmente abbiamo fatto una comunità per noi e non per il Regno. Le favole si concludono con questa poesia, il Vangelo no!

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La comunità è sempre una realtà conflittuale. La diversità di pareri, i diversi gradi di maturità, le esperienze passate, la formazione differenziata ricevuta costituiscono sempre motivo di conflitto. L’importante per l’individuo e per la comunità non è non avere conflitti ma il come si affrontano. È lì che si misura lo spirito evangelico. Lo spirito di famiglia. Il “come”. Per la prima comunità cristiana il segnale di bene che manda al mondo è quello della credibilità di una vita simpatica, attraente, segnata dal sorriso della grazia e dalla bellezza del tratto umano. Nessuno era bisognoso», scrive Luca; che vuol dire che i primi cristiani non sono attenti soltanto ai desideri, ma anche ai bisogni delle persone. Vera o no questa frase, sta di fatto che la chiesa primitiva conosce e comprende anche le necessità più materiali, più quotidiane dei fratelli. Il suo operato è concreto, pratico, capace di affrontare con determinazione la durezza prosaica delle situazioni quotidiane: il cibo che è poco, la malattia di un famigliare, un lutto imprevisto. Dove c’è un bisogno, la chiesa arriva, perché l’annuncio della risurrezione non dice solo la speranza del paradiso ma chiede di essere declinato nell’offerta di una vita buona già qui sulla terra, senza risparmio di mezzi e di energie.

Una questione di bellezza

Osserviamo con attenzione, ancora, questi anonimi credenti di duemila anni fa. Sono «simpatici» – dice il testo di Luca – stimati, rispettati. Uso un aggettivo più facile, che mi pare più espressivo e identificativo. Molto più efficace: sono belli. Essere credenti è una questione di bellezza, di grazia. Basta guardarsi in giro: tutti fanno di tutto per essere belli. Qualcuno ci riesce un gran bene, a dire il vero, qualcun altro ci prova senza grandi risultati; c’è perfino chi finisce col rendersi ridicolo. Ma essere belli è una cosa importante. E non abbiamo bisogno di troppe parole per comprendere di quale bellezza stiamo parlando. È una bellezza che dice uno stile, che mette in evidenza senza trucchi e prodigi di cosmesi la grazia di una personalità matura, riconciliata, il fascino di una vita riuscita. Quali sono i criteri con cui giudico una vita riuscita, compiuta? Quali i parametri di bellezza che adopero nel valutare un’esistenza, magari la mia stessa esistenza al cospetto degli altri e di Dio stesso? Una delle cose più importanti che possiamo fare nella nostra vita di religiosi, è quella di scoprire e raccogliere le storie della gente che incontriamo ogni giorno, e raccontarne la bellezza nascosta. A volte ci troviamo di fronte a persone esemplari nel quotidiano, di una ordinarietà commovente, che ci fanno capire senza tante parole che diventare belli, diventare santi, è davvero possibile, nonostante la nostra fragilità e il nostro limite.Uno diventa bello perché così lo vede il Signore. Impariamo a guardare come guarda lui. E guardiamoci con maggiore affetto. Anche in noi il Signore sa scorgere una bellezza nascosta; anche se non ci sentiamo capaci di grandi cose, di grandi scelte, di grandi rinunce. Siamo belli perché lui ci vuole bene; diventiamo quello che siamo.

Per chi desidera continuare la riflessione, offriamo anche la sintesi della seconda meditazione di p. Valtorta

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