LA SANTITÀ CAMILLIANA

Vorrei invitarvi a fissare lo sguardo su alcune categorie della santità camilliana, cioè di san Camillo, fondamentalmente: l’uomo, il convertito, il riformatore, il contestatore, il mistico che è autentico mediatore e reale paradigma della nostra stessa vocazione alla santità camilliana.

 

I PERCORSI DELLA SANTITÀ CAMILLIANA (p. Angelo Brusco)

  1. Vita Nostra n. 218 – luglio/settembre 1997
  2. Camilliani/Camillians n. 105 – maggio 1997

 

In questo articolo, pubblicato nel 1997, in occasione della beatificazione del servo di Dio, Enrico Rebuschini, p. Brusco offre quasi una catalogazione nominale di diversi religiosi assai noti della nostra agiografia camilliana, organizzando la presentazione secondo tre categorie:

 

  1. i confessori: intesi come interpreti fedeli della dimensione spirituale e mistica del Fondatore, consacrati che hanno ordinariamente e dinamicamente vissuto il Vangelo con la più tipica coloritura camilliana: p. Biagio Oppertis, fr. Bernardino Norcino; p. Ilario Cales, il novizio Girolamo Tiraboschi; p. Camillo Cesare Bresciani; Nicola d’Onofrio, etc….
  2. i martiri della carità: 288 religiosi che hanno ‘perso’ – o forse evangelicamente ‘guadagnato’ – la vita soprattutto assistendo malati contagiosi o infettivi – coloro che sono morti ‘volentieri’, con pazienza e fermezza accanto alla persona malata.
  3. i martiri della fede: p. Pietro Marieluz in Perù e la sua eroica fedeltà al segreto di confessionale; i 12 confratelli martiri spagnoli (tra il 1936 e il 1937) uccisi in odio alla fede che non hanno apostatato di fronte a minacce, calunnie, percosse, violenze e poi la morte.

Dal momento che la dimensione biografica dell’agiografia camilliana è già stata esplorata in questo ma anche in altri studi e ricerche precedenti, io, in questa mattinata vorrei orientarmi più sulle origini della santità camilliana, là dove tutto è partito.

Qui può essere utile, parlando di questa forma tipica della nostra storia di santità camilliana, andare a rileggere due testi che oserei definire ‘normativi’ per noi:

  1. la ‘formula di vita dei ministri degli infermi’, nell’edizione del 1599, codificata e confermata durante il secondo capitolo generale dell’Ordine (1599);
  2. la bolla di canonizzazione di san Camillo: ‘Misericordiae Studium’ (29 giugno 1746) di papa Benedetto XIV.

La ‘formula di vita dei ministri degli infermi

«Se, ispirato dal Signore Dio, uno vorrà esercitare le opere di misericordia corporali e spirituali secondo il nostro Istituto, sappia che deve essere morto al mondo, cioè ai parenti, amici, cose e a se stesso, per vivere solamente per Gesù Crocifisso sotto il suo soavissimo giogo della perpetua povertà, castità e obbedienza e servizio dei poveri infermi anche appestati, nelle necessità corporali e spirituali, di giorno e di notte, secondo ciò che gli sarà comandato.

Farà questo per VERO amore di Dio, per penitenza dei propri peccati, ricordandosi di quanto la Verità, Gesù Cristo, dice: «Ciò che avete fatto a uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me», e altrove: «Ero infermo e mi avete visitato: venite con me, o benedetti, possedete il Regno preparato per voi prima della fondazione del mondo». Infatti, dice il Signore, «con quella misura con cui voi avete misurato gli altri, con la stessa misura sarete misurati voi».

Perciò chi è stato così ispirato dal Signore mediti il significato della perfetta verità di queste parole, approfondisca questo ottimo mezzo per acquistare la preziosa perla della carità della quale il santo Vangelo dice: «quando l’uomo l’ha trovata vende ogni suo bene e la compra». Questa perla è appunto quella che ci trasforma in Dio, ci purifica dalle macchie della colpa, perché la carità copre una moltitudine di peccati.

Perciò chiunque vorrà entrare nel nostro Ordine pensi che deve essere morto a se stesso, se ha ricevuto un così grande dono di grazie dallo Spirito Santo da non curarsi né di morte né di vita, né di infermità, né di salute: ma come morto in tutto al mondo, si dia completamente a compiere la volontà di Dio sotto la perfetta obbedienza ai suoi superiori, rinunciando totalmente alla propria volontà, e ritenga un gran guadagno morire per il Crocifisso Cristo Gesù, Signore nostro, il quale dice: «nessuno ha un amore più grande di colui che dona la propria vita per i suoi amici». […]».

È interessante notare, proprio per riferimento al nostro tema di oggi, questa triplice insistenza sull’essere ‘morto al mondo’, ‘morto a se stesso’, ‘morto in tutto al mondo’.

Infatti, etimologicamente, ‘sanctus’ deriva da ‘sancire’, con l’idea fondamentale di ‘appartenere al mondo divino’, in una forma riservata esclusivamente al divino, proprio per opposizione al ‘pro-fanum’ (ciò che è davanti, fuori, lontano dal tempio, dal sacro).

Per cui, per Camillo c’è un ‘morire per vivere’ come anche un ‘vivere per morire’; ossia un morire e un vivere, intesi e vissuti proprio come un ‘riservarsi in senso assolutamente esclusivo / senza riduzionismi di sorta’, tutto per la cosa sacra-santa per eccellenza: il ‘servizio dei poveri infermi, anche appestati’, fatto ‘per VERO amor di Dio’.

Nella Vms (251) leggiamo: “Tutte le sue contemplationi, estasi, ratti, e visioni, consistevano in trattenersi quasi le notti intere a mirar fisso sopra qualche corpo morto, o moriente o altro povero infermo destrutto. Et in questi corpi così estenuati e macilenti considerava esso l’estrema miseria della vita humana… Et in simili spettacoli d’horrore imparava esso a vivere per morire, e quelli furono sempre i suoi libri e le sue schuole dove imparò a disprezzare il mondo, et amare i suoi prossimi”.

In questo testo troviamo un’espressione che ci indica una direzione precisa di riflessione sull’esperienza della croce e della misericordia di Camillo, fonti primarie e permanenti della sua santità: il servizio agli infermi era per lui il luogo in cui “imparava a vivere per morire”.

Nella “Formula di vita” del 1599, nella quale il santo ha sintetizzato l’essenza del carisma camilliano, troviamo un’espressione che apparentemente sembra essere l’opposto alla precedente: il ministro degli infermi deve imparare a “morire per vivere”.

Leggiamo il testo: “Se alcuno inspirato dal Signore Iddio vorrà esercitare l’opre di misericordia, corporali et spirituali, secondo il Nostro Instituto, sappia che ha da essere morto a tutte le cose del mondo, cioè a Parenti, Amici, robbe, et a se stesso, et vivere solamente a Giesù Crocefisso…”.

Ritengo che in queste due espressioni, si possa felicemente sintetizzare l’esperienza della santità di Camillo: tutta la sua vita è stata un IMPARARE (NB!) a vivere per morire e a morire per vivere, alla scuola del crocefisso.

Ma questo non sembra essere ancora sufficiente: la santità si sostanzia di un “bene fatto bene”, in cui il “bene primario” non è il contenuto esterno-apparente-visibile-oggettivato-quantificabile delle azioni; ma è primariamente racchiuso da una “forma di vita cristiana” radicale, coerente, monitorata costantemente nelle sue motivazioni profonde.

Quando Camillo infatti giunge a enucleare l’unica e fondamentale ragione dell’esercitare le “opere di misericordia”, nella morte a se stessi e nel vivere soltanto per il Crocefisso, con una formula sobria ma estremamente chiara afferma: “il che farà per VERO amore di Dio”.

Si va qui a toccare il nucleo più – e spesso ignorato – dell’esperienza di fede e quindi della santità, capace di rendere autentica la misericordia. Camillo ci invita ad andare al di là dell’apparenza, a guardare noi stessi (e non solo quello che facciamo) di fronte alla croce, e lasciarsi mettere nella verità dalla sua parola.

L’enfasi posta sull’aggettivo vero, sembra rimandare alla possibilità (che è ben di più di una possibilità, trattandosi piuttosto della situazione ordinaria!) di un amore di Dio “non vero”, di una misericordia per il malato “di facciata” – che diventa la forma più radicale dell’anti-santità!

Camillo conosceva la distinzione tra il “bene reale” (vero) e il “bene apparente” (bene non-vero), tra ciò che valuto come un valore, un bene-per-se-stesso e ciò che in qualche modo è solamente qualcosa importante-per-me.

Come negli altri aspetti della vita di fede, e forse anche di più, nelle opere di misericordia è in gioco la scommessa sulla possibilità che abbiamo di fare un dono sincero (che non sempre coincide con le buone intenzioni, che sicuramente ci muovono) di noi stessi agli altri. Il richiamo al vero amore ci mette di fronte all’urgenza di domande quali: che cosa sto veramente cercando nel servizio dei malati, che faccio? Per chi sto facendo quello che faccio? Chi mi fa fare quello che sto facendo? A chi sto donando di fatto questa parte del mio tempo, delle mie energie, della mia vita… che credo di donare?

Se notate, queste domande hanno da sempre sostanziato l’esame di coscienza dei santi, che più progredivano nell’età e nella sapienza della vita, approssimandosi alla ‘santità di Dio’ (“Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo” – Lv 11,44) tanto più si scoprivano inadeguati e bisognosi di continui correttivi (san Camillo nel suo transito, si confesserà come un “mostro pieno di difetti e senza spirito”).

Quando appariva chiaro per loro, che la fama delle loro opere buone li precedeva, ecco che subito, scattava in loro questo genere di ‘esame di coscienza’, per monitorare continuamente la ‘verità’ delle virtù teologali (fede, speranza carità) e delle ‘virtù connesse’ (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza, docilità/docibilità, etc…).

Se, in uno sforzo di onestà verso noi stessi di fronte all’amore crocefisso, le risposte che riusciamo a darci, non sono in grado di andare al di là dell’apparenza di quel “bene” che facciamo (e che spesso è “ben visibile” agli altri , perché non lo ignorino!)…; se non siamo in grado di rilevare quel “vero bene” dal quale siamo stati afferrati e sul quale abbiamo deciso di giocare il senso della nostra vita…;

se dietro il flusso e il riflusso di gratificazioni che inevitabilmente sostengono e motivano le nostre scelte quotidiane, compresi i nostri piccoli e grandi momenti di “donazione”, non emerge – fosse anche in forma germinale – l’unica vera risposta – “per Gesù Crocefisso” – … allora stiamo ingannando noi stessi (un po’ più difficilmente gli altri; mai Dio!)

Se la risposta (non certo quella verbale, quanto quella esistenziale, che si concretizza negli stili di vita, nelle piccole, ordinarie, spesso lineari scelte di cui sono fatte le nostre giornate) non è “per Gesù Crocefisso”, inevitabilmente – lo si voglia riconoscere o meno, – sarà sempre una risposta riconducibile al “per me stesso” (‘Salva te stesso’ o ‘Sono forse io il custode di mio fratello’?)!… Scoprirò che ci sono sempre degli spazi, delle situazioni, delle relazioni, probabilmente persino dei momenti di sevizio… esclusivamente riservati a me stesso, in cui posso “essere e vivere solo per me stesso” e piegare a questo tutto quello che mi circonda.

Per rimanere proprio sul tema del ‘per Dio’ o ‘per me stesso’, segnalo che il giorno 11 luglio 2017, papa Francesco, con il Motu proprio MAIOREM HAC DILECTIONEM, su «l’offerta della vita», introduce proprio la quarta via per la beatificazione e la canonizzazione.

Il sottotitolo del motu proprio non poteva che essere la celebre perla giovannea: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita PER i propri amici” (Gv 15, 13).

«L’offerta della vita è una nuova fattispecie dell’iter di beatificazione e canonizzazione, distinta dalle fattispecie sul martirio e sull’eroicità delle virtù».

«Sono degni di speciale considerazione ed onore quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri ed hanno perseverato fino alla morte in questo proposito», spiega Francesco a proposito della nuova modalità di beatificazione e canonizzazione da lui introdotta.

«È certo che l’eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità esprime una vera, piena ed esemplare imitazione di Cristo e, pertanto, è meritevole di quella ammirazione che la comunità dei fedeli è solita riservare a coloro che volontariamente hanno accettato il martirio di sangue o hanno esercitato in grado eroico le virtù cristiane».

«Pur avendo alcuni elementi che la fanno assomigliare sia alla via del martirio che a quella delle virtù eroiche, è una via nuova che intende valorizzare una eroica testimonianza cristiana, finora senza una procedura specifica, proprio perché non rientra del tutto nella fattispecie del martirio e neppure in quella delle virtù eroiche», si legge nel testo, in cui si precisa che la via dell’offerta della vita «assomiglia parzialmente a quella del martirio perché c’è l’eroico dono di sé, fino alla morte inclusa, ma se ne differenzia perché non c’è un persecutore che vorrebbe imporre la scelta contro Cristo».

Nello stesso tempo, la via dell’offerta della vita «assomiglia a quella delle virtù eroiche perché c’è un atto eroico di carità (dono di sé), ispirato dall’esempio di Cristo, ma se ne differenzia perché non è l’espressione di un prolungato esercizio delle virtù e, in particolare, di una carità eroica. Si richiede, comunque, un esercizio ordinario di vita cristiana, che renda possibile e comprensibile la decisione libera e volontaria di donare la propria vita in un atto supremo di amore cristiano, che superi il naturale istinto di conservazione, imitando Cristo, che si è offerto al Padre per il mondo, sulla croce». Anche l’offerta della vita, quindi, «non può prescindere dalla perfezione della carità, che in questo caso, però, non è il risultato di una prolungata, pronta e gioiosa ripetizione di atti virtuosi, ma è un unico atto eroico che per la sua radicalità, irrevocabilità e persistenza usque ad mortem esprime pienamente l’opzione cristiana».

È la condizione di chi accetta l’eroico dono di sé, fino alla morte. Simile al martirio ma senza un «persecutore» che voglia imporre la scelta contro Cristo!

Al contrario – cioè il ‘vivere-solo-per-me-stesso’ –, l’atto di fede – fondamento della santità battesimale! – perderà la sua forza di abbandono fiducioso, sotto le sferzate della legge ‘economico/mercantile’ del tornaconto. E il dono diventerà a poco a poco, ma inesorabilmente, una prestazione che mi deve garantire comunque una forma di gratificazione, con poco sforzo e ancor minore investimento di risorse e fatica!

Si pensi, per converso, al Tezza o alla Vannini, quando venne loro imposta la ‘separazione’, il reciproco isolamento, ponendo letteralmente un ‘oceano’ tra i due, per decenni, fino alla morte stessa del Tezza a Lima (1923). Se avessero calibrato la loro vita, anche la loro vita spirituale di fede, sull’emozione epidermica del ‘mi piace // non mi piace’, sulla gratificante ‘oftalmo-dulia’ (cfr. Evagrio Pontico – ‘Trattato sui vizi e le virtù’) chiaramente avrebbero subito gridato al ‘ma non è giusto’ … ed invece, in loro, niente di tutto ciò è emerso … solo un ‘atto di fede obbedienziale’ al progetto di Dio per la loro vita, anche se tale progetto era assai misterioso nei suoi dettagli!

“Il vero segno dell’amore”: la sofferenza, “il molto patire” e la santità camilliana

Il “molto patire” può essere una “misericordia del Signore”? E’ una domanda che san Camillo ci obbliga a prendere in considerazione.

Egli infatti era solito parlare della sofferenza e della malattia come di una “misericordia del Signore”. Tenendo presente la domanda sulla sincerità e verità della nostra misericordia che Camillo ci ha obbligato a porci in precedenza forse viene spontaneo chiederci: “Ma come (o addirittura “se”) è possibile vivere la gratuità dell’amore?

La Formula di vita ci può offrire una indicazione importante per il discernimento della nostra fedeltà al carisma (camilliano) della misericordia, e in definitiva, per il discernimento della qualità stessa della nostra tensione alla santità della vita. Conclude Camillo: “…ma tutto come morto al mondo si dia tutto al compiacimento della volontà de Dio…et abbia un grande guadagno morire per il crocefisso Cristo Gesù Signore Nostro… et così rinnovato si prepari al molto patire per la gloria di Dio, et salute della propria anima, et della Anime del Prossimo” (Formula di vita, 1599).

Chi si è incamminato nella via della misericordia “per vero amore di Dio” ci dice Camillo, sarà certamente provato con la sofferenza. Non si vuole in alcun modo stabilire alcuna equazione tra sequela e malattia; se si vuole porre a tutti i costi una equazione, i termini sono piuttosto il “vero amore” e il “dolore”!

Ma ora il dolore, la debolezza, la prova, il limite…, sono la condizione ordinaria che in qualche modo ci si presenta quando permettiamo alla “parola della croce” di attraversare la nostra vita. Non si tratta solo e principalmente di una questione “pragmatica” o di “opportunità”.

Qui il “molto patire per Dio” è “semplicemente” il segno della purezza del dono, in definitiva la “vera prova d’amore”. Quanto infatti viene detto della sofferenza fisica di Camillo, non può che valere a maggior ragione per il “molto patire” che inevitabilmente caratterizza il discepolato del Crocefisso.

Camillo riteneva la sofferenza “essergli stata mandata dal Signore”, “acciò egli si fosse avezzato a servirlo senza alcuna sorte di diletto, ma più tosto con somma pena, et afflitione corporale, il che diceva egli essere il vero segno dell’amore, dovendosi alhora con maggior costanza, e fortezza servire a Dio, quando l’anima si sentiva non solo oppressa da’ dolori, e infermità corporali; ma anco arida, e relitta da ogni gusto, e consolatione spirituale; sì come avvenne quasi sempre à lui”. (Cic. 1624, 165-166)

A ben guardare, il tempo della desolazione e della prova lo dobbiamo attraversare tutti, perché è il tempo in cui veniamo provati nella “tenuta”, nella consistenza degli ideali, nella verità del nostro ‘VERO’ amore.

Tutti dobbiamo passare per un inevitabile senso di frustrazione, come quando non riusciamo ad essere all’altezza degli ideali che vorremmo vivere, e soprattutto quando ci è difficile misurare l’efficacia e il gradimento di un servizio che stiamo facendo. Ma il momento della frustrazione, il momento al limite della demotivazione, il momento in cui non abbiamo più altra ragione per continuare in quel servizio, se non l’originario (se non dimenticato) “per Gesù”, quello è quel momento in cui posso, forse per la prima volta nella mia vita, cominciare ad essere un vero discepolo di Gesù, perché non ho più le gratificazioni che avevo prima.

La prova del “molto patire” è allora strettamente legata alla verità e alla libertà della relazione che abbiamo con Dio, alla sua gratuità, che appare o meno in tutto il suo splendore, quando tutte le gratificazioni che lo offuscano vengono meno.

È questo in fondo il mistero che contempliamo in Gesù Crocefisso, è questa la via della sua santità!

Ognuno di noi ha la sua “spina nella carne” (2 Cor 12,17): debolezze, immaturità e tendenze a ripiegarsi su di sé, bisogno di essere riconosciuto ed apprezzato per quello che si fa…, “spine” che forse difficilmente siamo disposti ad ammettere a noi stessi (figuriamoci di fronte agli altri!), ma comunque da riconoscere e assumere come proprie. Ognuno ha questi aspetti che tende, di solito, a valutare come negativi, che non vorrebbe avere e per i quali, magari, esattamente come S. Paolo, prega perché ne venga liberato (Rm 12,8). Preghiera che il Signore, naturalmente, si guarda bene dall’esaudire!

Egli infatti ci lascia le nostre debolezze, ci lascia quella spina che ci fa “molto patire”, come antidoto alla nostra vanità, “perché non montiamo in superbia” (Rm 12, 7) per il bene che facciamo – che è l’atteggiamento che umilia ogni aspirazione autentica alla santità – affinché sotto la spinta della ricerca spasmodica della gratificazione, non ci ricompriamo tutto quello che abbiamo venduto in precedenza, “per acquistare la pretiosa margarita della carità”!

Allora, in una vita trasfigurata dal dono totale di se stesso, anche le situazioni più incomprensibili (quelle cioè in cui Dio sembra smentire la sua promessa di salvezza, pronunciata dalla croce), come l’esperienza della sofferenza e della morte, diventano paradossalmente occasioni di continuare il dono di se stessi, fino alla fine “per amore di Gesù”, e proseguire, seppur tra alterne fortune, il cammino della santità battesimale, nella forma della nostra consacrazione.

In fondo è questo il tesoro di santità che Camillo ha posto nelle nostre mani.

Scrive nel Testamento spirituale: “Mi protesto di sopportare ed aver pazienza in ogni aversa per amor di Colui, che sopra una croce volle morire per me e voglio non solo sopportare l’inappetenza del mangiare e il mal dormire, e cattive parole; ma voglio anche obbedire a chi mi governa per amor di Dio e con pazienza intendo comportare ogni amara medicina, ogni doloroso rimedio e ogni fastidio sino all’Agonia della morte istessa per amor di Gesù, che Lui una maggiore ne patì per me; anzi quando io stesi fuori di me, e patissi qualsivoglia travaglio, e dolore nel corpo, intendo di patirlo volontariamente per amore del mio dolce Gesù…” (Scritti, 483).

“Misericordiae Studium” (1746)

Ora vorrei trarre qualche suggestione dalla bolla di canonizzazione di San Camillo (1746) – Misericordiae studium (l’ardore di misericordia) – scritta da papa Benedetto XIV, quel cardinale Prospero Lambertini, che di santità ‘canonizzata’ era, e forse, è, a tutt’oggi, il più grande indagatore, essendo stato, per lunghi anni, il Magister dell’allora congregazione per le cause dei santi.

Nella ‘bolla’ così viene profilata la santità di Camillo.

Le virtù del Fondatore S. Camillo, prima di tutte la carità!

E poi, dalle informazioni sulla sua vita e dagli accurati documenti sulle sue attività possiamo conoscere con certezza le caratteristiche di questa sua virtù, tanto la sublimità e la profondità, quanto l’ampiezza e la perseveranza della stessa.

1) La sublimità. Veramente sublime la carità, la quale, procedente da Dio e a Dio stesso riferita, faceva sì che Camillo vedesse in tutte le cose create (cfr. la dimensione ‘francescana’ di san Camillo), che per gli altri sono spesso incentivo di disordinata cupidigia, unicamente o come motivo di pietà verso Dio, o come occasioni di esercitare la misericordia verso il prossimo.

Perciò da tutte le realtà che si presentavano ai suoi sensi egli trovava nuovi incitamenti per amare e lodare il Creatore e per aumentare sempre più il fuoco della sua carità. Parimenti si sentiva spinto a parlare assiduamente di Dio e ad esprimere, non senza lacrime, veementi atti di amore verso di Lui. Il suo cuore ardeva di tanto fervore che dal suo volto emanava a volte un raggio di Luce visibile a tutti. E tuttavia egli soffriva di non sentirsi adeguatamente all’altezza di corrispondere alla bontà infinita di Dio, e perciò avrebbe voluto che gli fossero donate infinite vite da spendere tutte per aurore di Dio.

Acceso da questo desiderio si disponeva a prestare al prossimo le opere di misericordia con tale spirito da indirizzare con tutte le sue forze un atto di culto a Dio Onnipotente che vedeva presente nei poveri, e da questa convinzione non distoglieva mai la sua mente e il suo spirito.

Ma oltre a questo Camillo, arricchito da Dio di altre grazie soprannaturali, diede ancora in vita innumerevoli prove di celesti favori, dello spirito di profezia, del dono delle guarigioni e di un mirabile potere sulle leggi della natura.

2) La profondità. Camillo tuttavia, abbassando gli occhi da quella sublimità delle sue virtù e di carismi superiori e indirizzandole volentieri alla profondità della sua umiltà, senza mai lasciarsi prendere dalla dimenticanza dei suoi antichi errori e dalla necessità di purificarsi, spesso tra sé si definiva il peggiore tra i peccatori. Si dichiarava indegno di vivere tra gli uomini e con intima convinzione si professa- va un tizzone destinato al fuoco eterno.

Ma da questa fonte di umiltà sorsero assidui esercizi di penitenza e mortificazione con i quali affliggeva il suo corpo. Soprattutto il suo atteggiamento interiore dimesso induceva a servire ed assistere gli infermi senza sosta, in tutte le prestazioni più umili e faticose. Né si lasciava in nessun modo esaltare dal pensiero di aver fondato un Istituto religioso, assai gradito a Dio e agli uomini, di averlo amministrato con saggezza e diffuso in ogni luogo.

Anzi rifuggendo dal nome di Fondatore, a lui riservato dalla sorte, dopo aver sostenuto per ventisette anni la presidenza dell’Ordine con tanta pazienza e premura, infime, assicurato dal buono stato e governo dello stesso, umilmente rinunciò a tale ufficio e si dimise. Così da poter dire ai suoi fratelli, con Colui da cui aveva appreso ad essere mite ed umile di cuore: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”.

  • L’Ampiezza. Con quale larghezza si è dilatato il cuore di Camillo, così che i frutti della sua carità raggiungessero tutti i fratelli posti in situazione di tribolazione e di angustia? Su questo argomento riteniamo impossibile illustrare tutte le attività che egli è andato compiendo, con assiduità, per sostenere i poveri, per alimentarli e ospitarli, per difendere e dare alloggio alle giovani, per tutelare e assistere i bambini.

Una sola opera per tutte, che egli aveva assunto come propria e precipua nell’assistere gli infermi nell’anima e nel corpo, dimostra egregiamente la quasi immensa ampiezza della sua carità.

Chi infatti nell’Urbe era malato e Camillo, con affetto di misericordia, non si ammalava con lui? Presso chi non accorreva e, o lui stesso facendosi presente lo assisteva servendolo e consolandolo fino all’estremo, oppure mediante i suoi Compagni faceva pervenire il desiderato soccorso?

A chi oppresso dalla povertà o prostrato dalla malattia o atterrito dal gran timore della morte, non ha offerto gli opportuni conforti del corpo e dello spirito e non lo ha sostenuto nella fiducia dell’eterna salvezza?

C’è stato qualcuno irretito da vizi e peccati, oppure all’oscuro dei misteri e delle verità della Religione, che egli non si sia impegnato di ricondurre a propositi di miglior vita e di riammettere nel seno della Divina bontà, o che non abbia istruito nella dottrina della Fede e nella legge del Signore?

Anzi è noto che alcuni Eretici, colpiti da morbo nell’Urbe, impressionati dalla carità e dall’affabilità di Camillo, e illuminati dalle sue istruzioni ed esortazioni, con l’aiuto della Divina grazia, sono stati riammessi nella Chiesa Cattolica.

Frattanto, mentre egli moltiplicava le sue quotidiane fatiche in tutte le zone dell’Urbe, altrettanto incrementava la sua opera negli Ospedali pubblici, soprattutto nella Casa di Santo Spirito in Sassia, dove indirizza gli intenti dei suoi progetti e della sua attività, fino a dar a veder e di volervi collocare la sede stabile della sua esistenza.

Qui i malati poterono ottenere tutti quei servizi che ogni persona è solita richiedere agli amici, ai familiari e ai parenti. Né si può immaginare maggiore la sollecitudine di un’amorevole madre per il proprio unico figlio infermo di quella che Camillo aveva per tutti e singoli i malati prevenendo i loro desideri, provvedendo al loro conforto, alle comodità e alla pulizia, e favorendo una saggia accettazione dei Sacramenti.

Si dedicava in modo particolare a quegli infermi dai quali gli altri per paura di contagio o per la nausea delle piaghe con orrore rifuggivano. Non mancava di prenderli tra le sue braccia, di scaldarli nel suo seno, di coprirli con le sue vesti.

In questa situazione spesso faceva proseguire alle notevoli fatiche del giorno quelle della notte, senza preoccuparsi della sua gamba ulcerosa, senza badare al disagio e al dolore dell’ernia, senza ricordarsi di dormire o riposare, fino a trovarsi più volte stremato a terra, sfinito dagli stenti del corpo e dallo smarrimento dello spirito.

Restava da vedere se con queste premesse la carità di Camillo avrebbe in effetti raggiunto quel grado di dedizione che egli con i suoi Compagni aveva professato con voto, cioè di prestare aiuto e soccorso anche ai malati colpiti dalla peste.

Tutti presi dalla paura, dal pericolo imminente della vita, si precipitavano a cercare in qualsiasi modo riparo alla propria salute, o un luogo di sicurezza o almeno i mezzi per opporsi a tante sventure.

Mentre in verità Camillo, disprezzando la propria incolumità e la stessa vita, non dubitò affatto di dedicarsi totalmente con i suoi Seguaci a favore della salute pubblica.

Perciò fu visto non solo presentarsi ripetutamente in tutti gli Ospedali pubblici e portare soccorso ai poveri con l’azione, il consiglio e l’esortazione, ma anche entrare con inarrestabile premura nelle Case private, e, quando le porte fossero state chiuse, penetrarvi dalle finestre mediante delle scale appostate all’esterno.

Raggiungeva ansiosamente i luoghi più remoti, le grotte oscure e sozze stalle. Si dava da fare per scoprire dove ci fossero nascoste persone languenti, afflitte, sfinite dalla fame, per aiutarle e sollevarle con tutti i mezzi di cui poteva disporre, curarle nelle loro piaghe, astergere le putrefazioni, asportare la sporcizia; pulire i giacigli.

Se è vero quanto dice il Testimonio della verità eterna, che nessuno ha amore più grande di chi offre la sua vita per i suoi amici, che cosa occorre perché non riconosciamo l’eroica carità di Camillo, che mai si ritrasse dal mettere a repentaglio la sua vita per la vita dei poveri di Cristo, né mai giudicò la sua esistenza più importante della salute dei suoi fratelli per la quale tanto ardeva il suo cuore?

La vastità poi del suo amore non si restrinse ai confini dell’Urbe Romana, ma ha abbracciato altre Regioni e Città, nelle quali egli aveva diffuso il frutto del suo Istituto. Egli percorse quasi tutta l’Italia facendo del bene, esercitando ovunque l’opera meravigliosa della sua carità, soccorrendo con opportuni mezzi alle necessità di tutti.

4) La perseveranza. Infine va detto che Camillo ha alimentato la fiamma inestinguibile della sua carità fino al termine della vita, fino alla meta del suo ammirabile cammino. E quando per trentatré mesi fu provato da languore e da irriducibile e molesta febbre, affrettando col desiderio il giorno della morte, a lui preannunciato dal cielo, nient’altro avendo nel cuore se non l’amore di Dio e del prossimo, nient’altro raccomandando che questo ai suoi discepoli, alla fine, ricevuti con pietà e devozione i Sacramenti della Chiesa, il giorno 14 luglio dell’anno della salvezza 1614, il sessantaquattresimo della sua vita, emigra nel regno della perfetta carità.

CONCLUSIONE

Concludo, solo ‘leggendo’ quattro brevi citazioni di grande bellezza, circa l’appello alla ‘santità’ camilliana:

  1. Una esortazione del beato papa Paolo VI ai Camilliani.
  2. Tre brevissimi aforismi del beato Luigi Tezza.

«L’assistenza prestata alle necessità e ai dolori fisici e spirituali degli infermi vuol essere il prolungamento dell’inesauribile misericordia e pazienza e bontà di Gesù Signore, il quale si chinò su tutte le miserie dell’umanità ferita dal peccato, e attraverso la cura dei corpi doloranti diede pace e salvezza alle anime.

La vostra presenza negli ospedali, nelle case di cura, al capezzale dei poveri e dei bisognosi sia pertanto l’irradiazione costante della carità di Cristo, l’apologetica vissuta della delicatezza, del disinteresse, dell’eroismo, se è necessario, di chi ha fatto dell’esempio di Gesù Signore l’unica ragione di tutta la propria vita, la misura di una necessità senza misura, la molla segreta di uno slancio destinato a spezzarsi solo con la morte».

(Paolo VI, Ai Camilliani, vol. III, Tip. Pol. Vat., 1965, pp. 289-290)

La misericordia di Dio non è un ideale disincarnato dalla realtà, relegato al mondo delle pie pratiche e delle devozioni del cuore, ma un’esperienza concreta che tocca le storie e le ferite di ogni singolo essere umano.

Lo testimoniano le vicende esistenziali e i percorsi spirituali dei santi e dei beati, i quali sono testimoni privilegiati di come l’amore di Dio e il suo perdono di fatto non hanno limiti. Tra questi testimoni alcuni hanno fatto della misericordia «la loro missione di vita» in modo più specifico; altri sono diventati apostoli della misericordia e del perdono piegandosi sulle ferite più profonde dell’umanità.

La preziosa memoria ‘camilliana’ che ci accomuna e il carisma di misericordia verso i sofferenti consegnatoci da san Camillo de Lellis sono stati poi letti e riflessi nelle parole, nelle scelte, nelle decisioni, nell’universo intimo spirituale dei “nostri” santi, beati e servi di Dio.

Chiamiamoli pure “profeti” della misericordia. Uomini e donne di Dio che, con le loro intuizioni, la loro vita, le loro parole, hanno annunciato quell’abbraccio di misericordia del Padre che Cristo narra nella parabola del “figliol prodigo” e si trasfigura poi nella cura, nella dedizione compassionevole  del “buon samaritano”.

Quelle dei santi non sono mai state idee astratte, ma idee-forza, dei cunei motivazionali, con un effetto dirompente per il miglioramento della società del loro tempo e dell’umanità: idee perennemente valide perché scaturite dalla perenne novità del vangelo. San Camillo passò senza esitare dall’intuizione all’attuazione: «Ognuno si guardi bene di non far del riformatore, o sindico, o correttore per li hospidali, ma più presto si sforzi di insegnare con opere che con parole». In Camillo, la verità (ideale) si prassifica (opere) in questa linea di grande coerenza!

I malati aspettano, prima di ogni altra cosa, di leggere la novità della medicina e dell’assistenza, nel volto, negli atteggiamenti, nei gesti professionali degli operatori sanitari che a tutti i livelli operano nelle strutture.

Camillo direbbe ancor oggi che «modi nuovi si hanno da tenere», nei quali ci sia, anche nella fragilità dell’uomo, il riflesso dei modi con i quali Gesù medico dei corpi e delle anime, curava i malati che si assiepavano attorno a lui. O almeno lo sguardo e la tenerezza di una madre.

Di fronte ad un simile programma esemplare, parametrato alle difficili situazioni che si incontrano, al rischio dello scoramento, alla tentazione del disimpegno, il coraggio di osare è quanto mai necessario per poter riattivare energie non solo per una più incisiva azione individuale, ma un esercizio comune della misericordia, intelligente, programmato, costante e generoso!

  • “Tutto in Dio, per Dio, con Dio. Disposti per la carità a fare sempre più doloroso sacrificio, massime verso i poveri infermi; tale generosità sia di ogni istante e nei dettagli più piccoli della vita” (Scritti, 106, 27).

Queste parole di Padre Luigi Tezza (1841-1923) possono riassumere tutta la sua vita e le sue opere, vissute in un costante e ardente amore a Dio e al prossimo sofferente.

Tale progetto in cui si riconoscere il primato assoluto di Dio come fonte ispirativa dell’opera permanente di carità, è ben compreso fin dall’inizio della sua parabola esistenziale da p. Tezza e in esso emerge come l’immensità di Dio venga calata in forma radicale, in…:

  • in ogni forma di ‘sacrificio’ (sacrum-facere), ossia di rinuncia;
  • in ogni forma di condivisione solidale con i poveri e i malati, percepiti come i destinatari privilegiati dell’amore di Dio;
  • in ogni forma di semplice, quotidiana e perpetua disponibilità;
  • in ogni forma di bene che deve essere curato nei minimi dettagli, preceduto/accompagnato/seguito da una cura ‘maniacale’ per amore della persona, nel cui profilo viene percepito il volto stesso di Dio.

Per p. Tezza risulta intuitiva la percezione del volto di Dio che è ‘carità’, ossia, un amore che ad imitazione di Gesù ‘si spoglia’ o meglio ‘si svuota’. Spogliarsi è ancora poco: spogliarsi è l’esterno, svuotarsi è l’interno. L’amore cede tutto lo spazio all’altro, accoglie l’altro, non occupa posto, è pura accoglienza. Quindi, la prima manifestazione dell’amore è il vuoto, così come la prima manifestazione dell’egoismo è riempire tutto.

L’amore è discreto, lascia posto all’altro, si svuota e prende la ‘forma’ del proprio prossimo. Chi ama diventa come colui che è amato, si identifica con lui. Ecco che Dio, la sua gloria, la fa consistere nell’identificarsi con noi (cfr. incarnazione); quindi, non nel distinguersi.

Mentre l’egoismo vuol distinguersi dall’altro, affermarsi sull’altro, la gloria di Dio prima di tutto si svuota, poi si identifica con l’altro e, alla fine, si fa ‘obbediente’, che in greco, vuol dire “ascoltare stando sotto, stando sottomesso”.

 

  • Da uno scritto del 1868 si rileva un vero e proprio programma di santità:

«Prometto irrevocabilmente a Dio – di serbare sempre inalterabile calma di spirito in tutte le circostanze della mia vita, per quanto fossero per essere difficili e penose, contrarie alle mie viste, ai miei sentimenti;

– di abbracciare volentieri per amore del Cuore SS. di Gesù, senza mai lamentarmi, ogni maniera di afflizioni, disprezzi, ingiurie, maltrattamenti, disonori che mi possono in qualunque maniera arrivare; 

– di starmene sempre tranquillo in quel luogo, condizione, ufficio venga posto dalla santa obbedienza, di nulla mai chiedere, nulla mai rifiutare;

– di approfittarmi con sollecitudine e generosità di cuore di tutte le circostanze in cui possa esercitare la mortificazione;

– di usare ogni possibile modestia nei miei sensi e di costringerveli anche con speciali mortificazioni;

– di dedicarmi ad avanzare ogni giorno nella perfezione approfittandomi di tutte le occasioni che mi si offrono e di dedicarmi con ogni possibile impegno al bene delle anime, e massimamente dei miei confratelli religiosi...».

Ecco, capire che questa è la gloria e la santità, declinate evangelicamente, è il grande mistero della nostra stessa vita consacrata. Quando Gesù lava i piedi, noi diciamo sempre che Gesù si è degnato di lavare i piedi ai suoi discepoli: Gesù non si è degnato di lavare i piedi, ha manifestato la sua gloria ‘esattamente’ nel lavare i piedi, la sua dignità, non si è abbassato, non si è umiliato a lavare i piedi, si è esaltato, ha mostrato la vera esaltazione, quella di servire, che è la gloria di Dio.

Alla radice di ogni vera spiritualità/santità si scopre che vi è una scelta e una rinuncia; c’è un guadagno ma anche lo svuotamento;  la vita di consacrazione e più in generale la vita di santità, è “sottrazione”, è avere meno come condizione per crescere (poche ‘cose’ per far spazio alle ‘relazioni’). Solo coloro che non hanno nulla da proteggere o da difendere godono di una grande libertà di spirito e possono accogliere Cristo nella loro vita.

Coloro che hanno tutto o molto, non hanno bisogno degli altri. La semplicità di vita e la povertà dei consacrati rappresentano un modo di essere che fa sì che ciò che essi possiedono non possieda loro.

La semplicità ha sempre richiesto sobrietà e persino austerità nel rapporto con noi stessi; solidarietà nei nostri rapporti con gli altri, fiducia nel nostro rapporto con Dio e una saggia libertà e cura nel rapporto con le altre persone. Così si coprono tutte le dimensioni di una consacrazione che serve per stimolare un processo continuo di conversione.

 

  • In un biglietto, che padre Tezza teneva fra i suoi scritti, egli riproduceva in termini personalizzati quanto già predicava s. Francesco di Sales, che egli prediligeva nel campo della spiritualità: “Non ad alcuni soli, ma a tutti disse Iddio: sancti estote. La santità deve essere dunque a tutti accessibile”.

Rivelando una spiritualità affinata, il Padre Tezza ebbe a cuore un altro insegnamento del santo dottore savoiardo, che dice: In che cosa consiste la santità? Nel fare molto? No. Nel fare cose straordinarie? Neppure. Non sarebbe di tutti né di ogni momento. Dunque la santità consiste nel fare il bene ben fatto, nella condizione, nello stato in cui ci ha posti Iddio. Nulla di più, nulla al di fuori di ciò” (in A. Brusco, Il Beato Tezza, pag. 250).

Bene omnia fecit. Non cose straordinarie, non miracoli. Facciamo bene quello che dobbiamo fare. Nella proporzione in cui viviamo la nostra partecipazione alla vita stessa di Cristo godiamo di vita spirituale evangelica. “Vedi che non ci sia nulla che lavori nella tua mente e nel tuo cuore, se non Dio solo” (Anonimo inglese XVI sec.).

Per continuare e approfondire la riflessione

Fonti camilliane

Allegri R., Vieni con me. La vita e la spiritualità di fratel Ettore, Piemme, Milano 2014.

Brusco A., L’Amore non conosce confini. Beato Luigi Tezza, Edizioni Casa Generalizia Figlie di San Camillo, Roma 2001.

Casera A., Beato Enrico Rebuschini. Angelo dei sofferenti, Velar (Collana Messaggi d’amore), Gorle 2014.

Casera D., Il Beato Enrico Rebuschini, Velar, Gorle 1997.

Cicatelli S., Vita del P. Camillo de Lellis, Casa Generalizia dei Camilliani, Roma 1980.

Edizioni Religiosi Camilliani Provincia Romana, Roma 2001.

Gioia F., Il dono di servire gli infermi. Il carisma di Giuseppina Vannini e Luigi Tezza, Edizioni Istituto Figlie di San Camillo Grottaferrata 1994.

Grieco G., Beata Giuseppina Vannini. L’amore dà la vita, Velar, Bergamo 1994.

Lazzari R., Con Maria ai piedi della croce. La dimensione mariana in Maria Domenica Brun Barbantini, edizioni Camilliane (collana Storia e spiritualità camilliana).

Lessi V., Genio di carità. Maria Domenica Brun Barbantini, San Paolo, Milano 2008.

Maniglia A., Patiendo et orando. Maria Aristea Ceccarelli. Laica, sposa… madre, Tau (collana I Capolavori), 2016.

Ruffini F., Una vita donata. Vita del servo di Dio Nicola D’Onofrio, Religioso Camilliano

Sfondrini M., Germana Sommaruga e il «sogno» di Dio, Ancora, Milano 2010.

Taroni M., Beata Giuseppina Vannini, Velar (Collana Messaggi d’amore), Bergamo 2012.

Vanti M. (a cura di), Scritti di San Camillo De Lellis, Ed. Il Pio samaritano 1965.

Vendrame C., Il Fondatore, in A. Brusco, F. Alvarez, La spiritualità camilliana: itinerari e prospettive, Edizioni Camilliane, Torino 2001.

 

Bibliografia

Benedetto XVI, Deus Caritas est. Lettera enciclica sull’amore cristiano, 25 dicembre 2005.

Bianchi E., La misericordia di Dio. Una pecora, una moneta, un padre e due figli, Qiqajon, Bose 2015.

Francesco, Il nome di Dio è misericordia, Piemme, Milano 2016.

Francesco, Misericordie Vultus. Bolla di Indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, Città del Vaticano, 11 aprile 2015.

Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia. Lettera Enciclica sulla Misericordia Divina, Città del Vaticano, 30 novembre 1980.

Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Conc. Ecum. Vat. II, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962.

Kasper W., Misericordia. Concezione fondamentale del Vangelo – Chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013.

Kasper W., Testimone della misericordia: il mio viaggio con Francesco. Conversazione con Raffaele Luise, Garzanti, Milano 2015.

Militello C., Le opere di misericordia. Compassione e coltivazione dell’umano, San Paolo (collana Nuovi fermenti), Milano 2012.

p. Gianfranco Lunardon