di P. Roberto Corghi, P. Bruno Nespoli
All’avvicinarsi della “Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti” che celebreremo il prossimo 2 novembre, preceduta dalla “Solennità di tutti i Santi”, vorrei esprimere alcuni pensieri che l’avanzare degli anni mi va puntualmente riproponendo e approfondendo, e che ciascuno potrà riordinare o correggere secondo quanto la sensibilità personale e l’esperienza gli suggeriscono.
Le due ricorrenze, affiancate l’una all’altra, seppure in modo diverso, ci portano a soffermarci sul mistero della morte, la quale tuttavia, compresa alla luce della fede in Gesù risorto, ci introduce a quella pienezza di Vita che Dio da sempre ha voluto disporre come fine ultimo della vita di ogni uomo, mèta perciò alla quale tendiamo anche noi. Entrambe, dunque, celebrazioni della Vita.
Le Letture che ci vengono proposte nelle tre Messe dedicate alla Commemorazione dei Defunti ci presentano il passato, il presente e il futuro dell’intera storia umana, una storia già fatta propria e portata a compimento da Cristo nella sua Pasqua e trasformata in storia di salvezza alla quale già ora partecipiamo. Il nostro sguardo è portato così a sostare sull’innumerevole schiera di tutti i defunti che ci hanno preceduto, poi, più vicine a noi, sulle persone care che abbiamo conosciuto e delle quali conserviamo il ricordo, infine sul nostro oggi e su noi stessi, incamminati pure noi verso l’incontro con Dio. Chiamandola “commemorazione”, la Chiesa non ce la propone come un ricordo nostalgico ma come una “memoria liturgica”, una presenza condivisa, una comunione reciproca nella preghiera: la loro di intercessione e di incoraggiamento per il nostro cammino, la nostra di lode per la loro santità o di suffragio per la loro purificazione. In anni nei quali la catechesi sul Purgatorio, nella Chiesa, lascia desiderare, mi pare sia un’occasione propizia per riproporla ricorrendo anche all’immagine che ce ne dà l’Apocalisse in questi giorni: “la condizione di coloro che stanno purificando le proprie vesti per renderle candide” per unirsi poi “al coro della moltitudine immensa di quanti, lavate le vesti nel Sangue nell’Agnello e con le palme nelle mani, cantano l’inno dei salvati davanti al suo trono”.
Se il ricordo dei defunti rimane vivo nel cuore di tanta gente comune, come dimostra il persistere delle visite ai cimiteri e degli omaggi floreali deposti sulle tombe, non altrettanto si può dire della loro commemorazione, come dimostra il costante diradarsi dei fedeli presenti nelle nostre chiese, ancora più accentuato in questi ultimi due anni dall’improvvisa comparsa della pandemia e dalle sue conseguenze. Ma per noi, ovviamente, non è così. Non possiamo rinunciare al nostro passato e ai doni che ci ha consegnato. Non fare memoria di quanti ci hanno preceduto ed hanno preparato il nostro oggi sarebbe perdere qualcosa di noi stessi. come un albero che taglia la comunicazione con le proprie radici o come un fiume che cessa di alimentarsi alla sua sorgente.
Se i nostri Genitori non ci avessero trasmesso il dono della vita noi non saremmo. Se non ci avessero educati non porteremmo in noi i valori umani e spirituali che possediamo. Formandoci nella fede, ci hanno donato quanto sapevano di possedere di più prezioso.
Senza la memoria dei nostri Confratelli defunti la nostra vocazione non sarebbe la continuità della carità trasmessaci da san Camillo e probabilmente non saremmo neppure religiosi nel nostro Ordine. Anche loro, pur fra manchevolezze e fatiche, giorno dopo giorno ci hanno fatto dono della loro esistenza secondo le caratteristiche delle varie stagioni della vita: la freschezza dell’entusiasmo nell’età giovanile, il sacrificio umile e laborioso nella vita fraterna, la costanza fedele e ponderata nell’età matura, la dedizione ai malati nel ministero, infine, la sofferenza portata in comunione di intenti con Gesù Crocifisso come avviene nella maturità della vita nello spirito. Certamente hanno pensato anche a noi ed hanno gioito per noi nella speranza.
La memoria dei Confratelli e Collaboratori defunti raccoglie in un solo sguardo tutta la nostra storia camilliana: dai primi Confratelli che hanno dato origine all’Ordine a quelli che si sono dedicati alla sua crescita e al suo sviluppo, fino a quelli più recenti che, nella nostra Provincia come un po’ dovunque nell’Ordine, ci hanno lasciato in questi ultimi anni tormentati dal Covid. Fra questi, per brevità, mi limito a citare quelli deceduti nella nostra Comunità di Cremona: Padre Francesco Avi, Fratel Antonio Pintabona e il dottor Leonardo Marchi, Direttore sanitario della Casa di Cura. Il loro ricordo è tutt’ora vivo tra il Personale, tra la popolazione che ci frequenta, tra le stesse Autorità sanitarie e religiose, che apprezzano e sostengono la nostra presenza in città.
La memoria dei Confratelli defunti ci porta a domandarci: cosa ci hanno trasmesso? quali insegnamenti hanno lasciato per il nostro oggi? quali indicazioni per l’avvenire? In questi ultimi mesi ci sono pervenute lettere dei Superiori Generali o Provinciali e articoli di Confratelli alle cui riflessioni non saprei cos’altro aggiungere. Mi fermo a tre considerazioni.
Il dono della loro tradizione: il carisma
La parola latina “tràdere” significa “consegnare”. Quando facciamo un dono, consegniamo all’amico un oggetto che riteniamo prezioso e utile nel quale vi è parte di noi stessi: la nostra stima, il nostro affetto, la fiducia che saprà farne quel buon uso che col dono gli stiamo suggerendo. Se invece il dono è fatto a noi, lo riceviamo con gratitudine, ne studiamo ed apprezziamo il valore, ne facciamo buon uso con responsabilità e inventiva al fine di realizzare lo scopo per il quale l’amico ce l’ha donato. È quanto avviene quando ci poniamo in cammino “nel solco della tradizione con fedeltà creativa”. Tradizione e creatività dunque non sono che aspetti del medesimo dono. Come il dono dei talenti consegnati dal Padrone della parabola evangelica ai suoi servi perché li trafficassero o il dono della fede comunicata da san Paolo ai Corinzi perché la conservassero e testimoniassero fedelmente. Scriveva loro: “Vi ho trasmesso dunque anzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.” (1 Cor 15,3ss)
Il valore della tradizione ha perciò contenuti ben diversi rispetto a quelli sottintesi da un certo linguaggio, spesso anche ecclesiale, che classifica le persone in “tradizionalisti” e “innovatori”, ed i loro comportamenti in “conservatorismo” e “progressismo”, espressioni che dovremmo evitare nella Chiesa come fra noi, e che in realtà rivelano la propensione di entrambi alla reciproca intolleranza.
La tradizione che abbiamo ricevuto dai Confratelli del passato è essenzialmente “il dono del nostro carisma”: il servizio ai malati compiuto con lo spirito e nelle forme trasmesse loro da san Camillo, coltivato nella preghiera e condiviso con abnegazione nella loro vita comune, adeguato alle caratteristiche sanitarie dei loro ambienti di ministero, sviluppato per rispondere alle necessità delle loro epoche storiche, fino ad essere consegnato a noi, oggi. Alla nostra generazione e a quella alla quale a nostra volta lo consegneremo, collocandoci in strutture e ambienti sanitari, il nostro carisma offre più che in passato l’opportunità di incontrare, ascoltare, conversare con malati di ogni estrazione sociale o religiosa: fedeli ferventi o che hanno abbandonato la fede, cattolici o cristiani di altre confessioni, appartenenti ad altre religioni o non credenti, e altro. É ciò a cui ci sollecita l’inizio del cammino sinodale che abbiamo appena intrapreso.
I tratti del nostro carisma: la consacrazione
Nel suo libro più recente, analizzando con la lucidità che gli è propria la profonda crisi di valori della nostra epoca, in particolare nelle nazioni europee o di cultura occidentale, Benedetto XVI la sintetizza così: “il problema del mondo di oggi è l’assenza di Dio”. E’ la prima e più grave forma di povertà dell’uomo contemporaneo che il Papa emerito ci indica come causa delle varie povertà spirituali, morali, economiche, sociali o ambientali che lo affliggono. Non ci addentriamo nell’analisi realistica e dettagliata che descrive, ma ci limitiamo a quella “periferia” che è affidata in modo del tutto speciale al nostro carisma: il servizio ai malati e ai morenti nel mondo ospedaliero, domiciliare e sanitario in genere, tanto da far dire a san Camillo che il Signore aveva riservato proprio a lui, e a noi, “la pietanza grossa della carità”. Se le discipline mediche d’oggi mostrano un sorprendente progresso scientifico e assistenziale, altrettanto però va detto che, per molti aspetti, mostrano uno sconcertante regresso nei valori etici, umani e religiosi di cui sono portatrici per loro vocazione naturale. Basti il solo accenno alle attuali concezioni, legislazioni e pratiche inerenti la vita dell’uomo nel suo concepimento, nella promozione della sua protezione e della sua cura, nel suo accompagnamento alla morte. I nostri Confratelli defunti, dal cielo, non possono che stupirsi per le sfide nuove alle quali è sottoposta la vocazione che ci hanno consegnato, da loro neppure immaginate, e trarne motivo di preghiera e di incoraggiamento per noi e per l’evangelizzazione alla quale è chiamata la nostra generazione.
La nostra vocazione camilliana, oggi più che mai, ha bisogno di essere annuncio dell’amore di Dio e della misericordia di Cristo accanto ai malati, ai loro famigliari, agli operatori sanitari che li assistono nelle antiche o nuove istituzioni sanitarie. Un annuncio tuttavia che se non fosse accompagnato anche dalla nostra testimonianza coerente, non solo mancherebbe al suo compito di essere una promozione vocazionale, ma rimarrebbe inevitabilmente privo della sua stessa credibilità. Il nostro carisma richiede dunque la testimonianza di ciò che siamo: della nostra consacrazione religiosa.
“I voti di castità, povertà e obbedienza – scriveva in una sua recente lettera il Padre Provinciale – sono finalizzati all’esercizio del quarto voto e dello stesso carisma”. I tre voti, infatti, alimentati dalla grazia battesimale che costituisce il primato della vita spirituale in ogni vocazione, condivisi nella vita comune e praticati nel ministero, oltre che essere il cammino di ascesi della nostra santificazione, rappresentano una condizione privilegiata per annunciare e testimoniare la paternità di Dio nelle povertà dell’uomo d’oggi e del mondo sanitario contemporaneo. Anche la nostra sola presenza dice la vicinanza di Cristo ai malati nell’esperienza della loro fragilità, la dignità inalienabile della loro persona, la nostra partecipazione alle loro sofferenze, la nostra cura della loro salute come appello alla loro salvezza eterna. Sparso un po’ qua e là, ce lo ricordano anche le nostre stesse Costituzioni.
La Commemorazione dei Confratelli defunti è un invito allora a raccogliere dalla ricchezza del patrimonio che ci hanno trasmesso anche la testimonianza della loro vita consacrata, accogliendola come una loro esortazione rivolta a noi.
La mèta del nostro futuro: il cielo
Il cammino per il nostro futuro è già in parte tracciato e sarà ulteriormente delineato nelle lettere e programmi che ci sono o saranno proposti dai Superiori, in conformità con le nostre Costituzioni e in ascolto dei nostri suggerimenti. A noi, data la ricorrenza liturgica che celebriamo, penso sia più confacente limitarci a coglierne e confermarne la direzione e la mèta: il cielo. In altre parole, la nostra preparazione all’incontro con Dio. Tra gli eventi che inevitabilmente fanno parte dell’esistenza, la morte è quello più sgradito e banalizzato nel mondo, delicato e toccante nell’esercizio del nostro ministero, certo e inaspettatamente confortante nella nostra vita personale. Anche su questo non mancano esempi edificanti nella vita del Fondatore e dei primi Confratelli. Fra i tanti da ricordare, hp privilegiato la preghiera che san Camillo rivolgeva alla Vergine nei suoi ultimi giorni: “Madre Pietosa, per quella costanza che mostrasti stando in piedi sotto la Croce, vedendo il tuo Santissimo Figliuolo crocifisso e morto, ottienimi grazia che questa mia anima si salvi.” (vita manoscritta)
L’ultimo pensiero vorrei lasciarlo alle parole che, se ben ricordo, un anziano Padre del deserto rivolgeva al giovane monaco che era venuto a chiedergli consigli. Dicevano più o meno così: “Al termine della strada non c’è la sua fine ma il suo compimento: la mèta. Al termine della salita non c’è la sua fine ma il suo compimento: la vetta. Al termine della gara non c’è la sua fine ma il suo compimento: il premio. Al termine della semina non c’è la sua fine ma il suo compimento: la messe. Al termine della navigazione non c’è la sua fine ma il suo compimento: il porto. Al termine della nascita non c’è la sua fine ma il suo compimento: la vita. Al termine della vita non c’è la sua fine ma il suo compimento: l’eternità. Prima di coricarti, ringrazia Dio per il giorno che ti ha donato e per quello che domani ti donerà. Allora, quando giungerai alla sera della tua vita, ti addormenterai nella pace con la certezza che ti risveglierai nel giorno eterno dove splende la luce di Cristo”. Penso che quel vecchio anacoreta proponesse quanto a noi oggi suggerisce la preghiera della Compieta. Pure noi, “al termine del giorno”, ci rivolgiamo al nostro “sommo creatore”, gli domandiamo il perdono delle nostre mancanze, gli esprimiamo la gratitudine per i doni ricevuti, gli affidiamo i malati che abbiamo incontrato, lo preghiamo di vegliare “con amore di Padre” sul nostro riposo, certi che ci risveglierà all’indomani per un nuovo giorno. Poco a poco, cresce in noi la certezza che anche quando chiuderemo la “giornata terrena” ci donerà di risvegliarci in quel “giorno nuovo” al quale tutta la nostra vita ha aspirato: la sua pienezza nella vita eterna in Cristo, “il Sole che non conosce tramonto”. É un buon esercizio per prepararci serenamente all’ultimo grande passo. Naturalmente, quando Lui vorrà, tutt’al più suggerendogli con confidenza filiale di… non avere fretta!
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