Vivere ai tempi del Coronavirus

di Andre Vicini, pubblicato il 21 marzo 2020 su https://www.laciviltacattolica.it/

Corrispondente dagli Usa per La Civiltà Cattolica e docente di Teologia morale e Bioetica al Boston College (Usa).

Pochi anni dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1982, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez pubblicò il romanzo L’ amore ai tempi del colera[1]. Anni prima, il medico svedese Axel Munthe, accorso a Napoli nel 1884 per curare le vittime dell’epidemia di colera, scrisse le sue Lettere da una città dolente[2]. In entrambi i casi, l’epidemia causata dal batterio Vibrio cholerae diviene lo sfondo di storie profondamente umane (immaginate nel romanzo di Márquez e reali nelle lettere di Munthe). Márquez e Munthe ci invitano a contemplare come sia possibile vivere «ai tempi» di un’epidemia, quali testimoni involontari delle sofferenze umane, desiderosi di aiutare i più bisognosi e coscienti dei rischi di contagio.

Oltre a questi due libri, la letteratura non ha mancato di offrire pagine esemplari che ci aiutano a comprendere cosa e come si vive, e quanto si soffre, durante le epidemie. Tra le molte opere possiamo ricordare, in primo luogo, I promessi sposi di Alessandro Manzoni (1827), a proposito della peste che afflisse il nord della penisola italiana negli anni 1629-31 e che fu uno degli ultimi focolai della secolare pandemia di peste – la «peste nera» – che ebbe il suo culmine nel continente europeo intorno al 1350.

In secondo luogo, nel suo libro intitolato La peste (1947), Albert Camus ci immerge nel dramma della peste che travolge la città algerina di Oran nel 1849, invitando a interrogarci sulla natura e sul destino della fragile condizione umana. Ai tempi del colera e della peste, ci domandiamo chi siamo, come viviamo, cosa causa tutto ciò e dov’è il nostro Dio quando soffriamo. Mentre cerchiamo risposte, ciò che emerge è l’urgente necessità di cura, con un’attenzione privilegiata a chi è più povero e vulnerabile.

In un libro più recente, il medico e antropologo Paul Farmer[3] afferma che nel tempo del colera occorre anche interrogarsi in modo critico sull’insieme delle condizioni sociali, culturali e politiche che caratterizzano la vita delle persone e che dovrebbero far parte integrante di ogni intervento volto a promuovere la salute nel territorio. Facendo eco alla tradizione biblica e spirituale, l’autore invita alla conversione, personale e sociale, interiore e strutturale. Ai tempi del colera, e di ogni altra patologia che affligga le persone e l’umanità, occorre considerare tutte le molteplici dinamiche che influiscono sulla salute, promuovendo condizioni di vita che favoriscano i cittadini, mentre si rafforzano i sistemi sanitari e si offrono cure e servizi sanitari specifici, capaci di rispondere ai bisogni di salute delle persone nei diversi contesti in cui esse vivono sul nostro Pianeta[4]. Il presupposto è che ogni fattore sociale influisce sulla salute: dalla violenza all’educazione, alle possibilità lavorative e di alloggio, alle infrastrutture sociali (strade, fogne, reti idriche ed elettriche).

Promuovere la salute ai tempi del coronavirus richiede quindi di concentrarsi, in primo luogo, sulle relazioni tra professionisti del settore sanitario e pazienti, contenendo l’infezione e mitigandone gli effetti. In secondo luogo, è necessario intervenire sul territorio con misure di salute pubblica, volte, anche in questo caso, a contenere e, se ciò non è possibile o non è sufficientemente efficace, a mitigare la diffusione dell’infezione e la gravità delle sue conseguenze. La quarantena di due settimane – scelta autonomamente o imposta –, come pure la riduzione degli spostamenti, la cancellazione di voli e di eventi e l’isolamento di città e regioni sono esempi di interventi di salute pubblica per affrontare l’emergenza. In terzo luogo, come è mostrato dalla progressiva diffusione della pandemia, sono necessari interventi protettivi globali per far fronte all’emergenza sanitaria[5].

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