“La prima comunità camilliana” – Omelia di P. Renato Salvatore, 3 maggio 2013

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Ci troviamo in un posto unico per noi Camilliani. Questo è il luogo ove riposano le spoglie mortali del nostro santo Fondatore ed è una casa ricolma di speciali ricordi riguardanti la storia del nostro Ordine. Nel dicembre del 1586 i nostri confratelli sono entrati in questa casa con annessa l’allora piccola chiesa della Maddalena.

L’idea di costituire un gruppo di buone persone per un migliore servizio dei malati era nata in Camillo da quattro anni. Ma la radice va individuata nel giorno della sua conversione. Da allora egli divenne una persona nuova: decise che la sua vita doveva essere totalmente consacrata a Dio. Questa determinazione continuerà ad inabitare il suo cuore nonostante la malattia alla gamba fosse divenuta un ostacolo insormontabile per restare nei cappuccini.

Anche l’idea di una compagnia di persone buone sarebbe naufragata per le forti opposizioni. Dal crocifisso – con il quale aveva un’intima relazione quotidiana – fu “animato e consolato” con parole che rimarranno incise a fuoco nello spirito del nostro Fondatore: “Vai avanti senza timore poiché questa è opera mia, non tua!”. Quel crocifisso che allargò le braccia verso di lui è ancora in questa casa, accanto al cuore del nostro Fondatore. E continua a infondere tanta forza e consolazione al nostro Ordine per portare avanti questa opera divina.

Così, per decisa volontà di Dio, nasce la comunità camilliana.

Entrando in questa casa, la nostra immaginazione si attiva spontaneamente con il desiderio di poter osservare – come in una specie di film/documentario – quello che facevano qui san Camillo e i suoi primi compagni. I diversi racconti che ci sono stati trasmessi ci aiutano nella ricostruzione, certo parziale, di come questa prima comunità camilliana viveva la carità verso i poveri e i malati; con le sue specifiche caratteristiche che la distinguevano dalle altre presenti in Roma. Nel delineare i profili di quella comunità mi riferisco a quanto scritto dal compianto Superiore generale padre Calisto Vendrame.

Era una comunità:

carismatica, formata da persone ispirate da Dio e decise a morire a se stesse per vivere solamente a Gesù Cristo;

composta da persone che trovano la fonte della loro spiritualità, come afferma la nostra Costituzione, “nella presenza di Cristo nei malati”;

nuova e molto attuale, che risponde alle sfide del momento e del luogo in modo creativo, originale. Una comunità ritenuta da tutti necessaria poiché – sia in ospedale che a domicilio – si occupa del servizio globale del malato come sua finalità principale;

il cui campo d’azione si allarga senza esitazioni; questi religiosi sono disposti e pronti ad intervenire ovunque vi sia una grave necessità (pestilenza, tifo, carestia, inondazione, guerra). Una comunità aperta alla Chiesa locale e universale, a tutte le necessità dei malati e anche alla collaborazione dei laici. Camillo non solo incoraggiava molti fedeli nella dedizione ai malati, ma istituì la Congregazione del Santissimo Crocifisso (1592) – dando loro una stanza qui nella casa della Maddalena – per condividere con i religiosi il servizio agli infermi; e firmò un diploma di aggregazione all’Ordine della cosiddetta “Congregazione di Siculari” (18 febbraio 1594);

composta da persone che servono i più poveri con amore di madre, con tutte le energie e gratuitamente. A quella comunità i poveri non avevano bisogno di bussare: le porte erano sempre spalancate per loro, soprattutto nei momenti di carestia o di epidemie. Il cortile, qui a fianco della chiesa, è testimone della presenza di tante persone bisognose. “Struggendosi Camillo di compassione (particolarmente sentendo gridare la notte i poveri per le strade, domandando un boccone di pane) […] ordinò in casa che ogni giorno si facesse una grande caldaia di minestra di farro, di riso, di fave, o di altra cosa simile di legumi. Poi facendo congregare nel Cortile di casa quanti più poveri poteva […] faceva dare una minestra, un pezzetto di pane, e una tazza di vino per ciascuno, cioè tanto quanto pareva a lui che fosse necessario affinché non morissero di fame per quel giorno, e fu talvolta che questi poveri arrivarono al numero di quattrocento. […] Nel licenziargli poi sempre ne facevano restare in casa qualcuno dei più malridotti, i quali, o da Camillo o da altri venivano tosati, lavati, o rappezzati dando – in cambio dei loro stracci puzzolenti – tutti i vestiti che si ritrovavano in Guardaroba”.

E durante le epidemie – come sappiamo – la casa si trasformava anche in ricovero per malati.

Per i religiosi di quella comunità, però, non era sufficiente accogliere i poveri e i malati, avvertivano che era necessario andare a cercarli o, come affermava Camillo, cavarli da sotto terra; comunque visitarli nei loro miseri tuguri o addirittura nelle grotte “dove – come narra il Cicatelli – giunti [i nostri confratelli] mettendosi ciascuno il suo grembiule e un bicchiere di stagno alla cinta, andavano dispensando di porta in porta quella carità di pane vino, carne, galline, uova, […] e ogni altra cosa necessaria. Dando da mangiare di propria mano agli infermi più gravi secondo l’ordine del medico. Finito poi di dar loro da mangiare, gli rifacevano i letti, gli lavavano i piatti, gli spazzavano la casa e anche gli fasciavano i lor piccoli fanciullini, il pianto e il pallore dei quali avrebbero fatto piangere qualunque cuore duro”;

una comunità dove la gioia e l’entusiasmo quasi si toccano con mano, pur nella durezza dell’esercizio del carisma;

che riserva tanto tempo allo stare insieme, per pregare e per riflettere con passione sulle cose importanti;

internazionale, composta da italiani, spagnoli, francesi, irlandesi, inglesi, fiamminghi;

una comunità povera, con scarse risorse materiali, composta da persone distaccate da qualsiasi interesse individuale;

una comunità che viene incontro alle aspirazioni di tanti giovani che in essa finalmente trovano un senso pieno per la loro vita. Racconta il Cicatelli: “nella Congregazione non solo entravano giovani nobili, studenti, e d’ogni altra buona estrazione; ma anche Sacerdoti fatti, e dotti che potevano subito mettere mano alla pasta e lavorare in questa santa vigna”. Ed erano tanti che in questa casa non c’era più posto per accoglierli tutti.

Così possiamo immaginare quella comunità. Certo, anche allora non mancavano le difficoltà interne ed esterne, ma queste venivano affrontate e superate poiché i nostri confratelli erano motivati da una incontenibile passione per Cristo e per l’umanità sofferente. Un desiderio li accomunava tutti: poter avere il privilegio di morire assistendo i malati! Tutti noi sappiamo bene che anche nel pieno di accese discussioni con il Fondatore – su al primo piano, nella sala Capitolare – se perveniva la notizia di un’epidemia, facevano a gara gettandosi ai piedi di padre Camillo per ottenere la grazia di partecipare ad una sagra della carità. Quanti di loro hanno scritto, con il dono della vita, pagine di eroica e commuovente carità!

In questa casa i nostri confratelli furono testimoni di accadimenti straordinari: come i non rari stupefacenti interventi della Provvidenza o i miracoli compiuti da Camillo. Lo osservavano incontenibile, irraggiungibile e materno con poveri e malati; assorto, sprofondato nell’unione con Dio. E, a volte, nell’uno come nell’altro caso rapito in estasi. Come accadde in questa casa: l’incaricato di svegliare i religiosi, passando di buon mattino davanti alla camera di Camillo, fu attratto da una luce che proveniva dall’interno. Guardando con attenzione vide il padre che pregava, sollevato da terra.

Nella Formula di vita troviamo questa esortazione: “Se alcuno inspirato dal Signore Iddio vorrà esercitare le opere di misericordia… sappia che ha da essere morto a tutte le cose del mondo – cioè a parenti, amici, cose e a se stesso e vivere solamente per Gesù Cristo”. E poco oltre, ancora una volta viene ribadito lo stesso concetto: “Ognuno dunque che vorrà entrare nella nostra Religione pensi che ha da essere a se stesso morto… e si dia tutto al compiacimento della volontà di Dio”. Questi religiosi potevano ben dire con San Paolo: in me non vive più l’uomo vecchio, quello carnale; quell’uomo è morto; ora vivo di Cristo”.

Ognuno di loro ha risposto positivamente a questa domanda di Gesù. “Tu ami me più degli altri? Occupo il primo posto nel tuo cuore?”. Ed è questo amore indiviso a Gesù Cristo che consentiva loro di esercitare le opere di misericordia spirituali e corporali verso i malati in una incredibile eroicità quotidiana. Così è ancora oggi per noi: il nostro servizio ai malati è prima di tutto una “risposta d’amore all’amore di Dio”; tutte le altre motivazioni sarebbero insufficienti se non addirittura negative.

È proprio questa condivisa unione all’unica vite che è il Signore a consentire ai membri di una comunità di costruire delle relazioni che siano fraterne, e di esercitare un ministero comunitario che sia segnato dalla misericordia verso gli ultimi.

Noi siamo chiamati ad essere dei contemplativi in azione, come lo fu il nostro Fondatore. Camillo frequentemente esortava alla preghiera, all’unione con Dio. Ripeteva: “Bisogna sempre pregare e non stancarsi mai. Guai a quel religioso che si contenta solamente dell’ora di orazione mentale che fa la mattina, andando poi tutto il resto del giorno distratto qua e là con la mente; questo tale si troverà la sera con le mani piene di mosche e di vento”.

Essere con Cristo e essere di Cristo è il nostro vero bisogno e quindi il nostro primo dovere da assolvere per restare spiritualmente in vita e per rendere fecondo il nostro ministero. Ricordava il Beato Giovanni Paolo II: “Un pericolo costante per gli operai apostolici è di farsi talmente coinvolgere dalla propria attività per il Signore, da dimenticare il Signore di ogni attività”. La carenza di unione con il Signore ci impoverisce tanto da renderci incapaci di costruire una vita fraterna in comunità, come pure di donarci agli altri. Infatti, la mancanza in noi dell’amore di Dio favorisce una abnorme crescita dell’egoismo: esso, purtroppo, è un potente e terribile meccanismo che fa considerare tutte le persone, con le quali si entra in contatto, come oggetti da usare per raggiungere le nostre distruttive finalità.

Camillo riconosce il volto misericordioso di Dio soprattutto in Gesù crocifisso; in Lui trova il segno concreto dell’amore salvante del Padre. Il Cristo va riamato con la dedizione totale ai poveri infermi in cui Lui si rende presente, ma ciò è possibile solo come conseguenza della propria conformazione a Cristo stesso. Se non si vive in intima unione con Cristo – punto centrale e convergente di tutta la nostra vita – non sarà mai possibile il vero servizio ai confratelli e ai malati.

Come Cristo si è abbassato a condividere il destino dell’uomo, così il camilliano deve scendere nei contesti più profondi della sofferenza e della malattia: è qui che realizza in pienezza la sua identità, ripercorrendo il cammino di discesa di Cristo. Il camilliano non annuncia solo le parole e le azioni del Cristo, ma le compie in una condizione vitale la più vicina a quella di Cristo: come Lui si è svuotato, così farà anche il camilliano, divenendo il servo di tutti, in particolare dei sofferenti.

Quella prima comunità è composta da persone che da una profonda vita spirituale sono rese capaci di contemplare il volto di Cristo: è in esso che scorgono il volto del prossimo; e così diventa facile per loro vedere il volto stesso di Cristo nei confratelli e nei poveri malati. Ecco perché quella comunità accoglie, offre spazio materiale e spirituale ai poveri, ai malati, alle giovani vocazioni e ai laici di buona volontà.

Chiediamo, allora, al nostro amato Fondatore e a tutti i nostri primi confratelli di imitare la loro totale consacrazione a Dio, il loro impegno per costruire una comunità fraterna e la loro dedizione al completo servizio dei malati.