P. Bernard Kinvi: ho scelto di servire i malati a costo della mia vita

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Le prime immagini di p. ‪#‎Kinvi‬ a Yerevan in Armenia dove domenica si terrà la cerimonia di premiazione degli ‪Aurora Prize‬.

P. Bernard Kinvi da poche ore si trova a Yerevan in Armenia dove domenica si terrà la cerimonia di premiazione degli ‪#‎AuroraPrize‬. P. Bernard insieme a Marguerite Barankitse, Dr. Tom Catena, Syeda Ghulam Fatima sono tra i finalisti Aurora Prize, che ogni anno premia, “una persona o un gruppo di persone che hanno messo a rischio la loro vita per consentire ad altri di sopravvivere”. 

Per l’occasione vi proponiamo una parte dell’intervista che p. Kinvi ha rilasciato a p. Thomas Rosica per la Salt and Light Catholic Media Foundation. Il video dell’intervista in francese la potete trovare QUI

P. THOMAS ROSICA: P.  Kinvi siamo molto toccati dalle immagini che abbiamo visto e siamo onorati di averla tra di noi qui a Toronto oggi, giorno in cui riceverà un importante premio dall’organizzazione Human Rights Watch per il suo lavoro in Centrafrica. Mi parli della sua vita e della sua vocazione

P. BERNARD KINVI: Sono nato in Togo in una famiglia cristiana, ho tre fratelli e due sorelle e sono il secondo più giovane della mia famiglia. Ho scoperto la mia vocazione quando mio padre stava per morire dopo aver sofferto per 18 anni di emiplegia. Gli sono stato molto vicino in questo lungo periodo di sofferenza. Mi sono preso cura di lui mentre mi mostrava come pregare e amare Dio. Da quel momento mi sono reso conto che la mia vita  avrebbe avuto un senso se mi fossi donato completamente a Dio. L’unica cosa certa è che non volevo diventare semplicemente un prete, almeno non solo quello. Volevo essere un prete che sapesse stare vicino ai poveri e ai malati. Conoscevo una comunità religiosa che operava a Lomé in Togo. A Lomé c’è una comunità di suore della Divina Providenza, fondate da San Luigi Scrosoppi, che prestano il loro servizio ai poveri. Dopo aver chiesto a queste religiose se ci fosse anche un ramo maschile del loro Istituto nel quale potermi consacrare, loro stesse mi orientarono in Benin a conoscere i Camillani, una congregazione che operava in ambito sanitario.

R: Il fondatore è San Camillo de Lellis, che aveva una particolare vocazione nel prendersi cura dei malati e dei sofferenti.  Cosa hai scoperto durante la visita in Benin e cosa hai trovato in questa comunità.

K: Per prima cosa scoprii che queste comunità si prendevano cura dei malati. C’era una casa di riposo per le persone anziane. Visitando la casa di riposo e leggendo la vita di San Camillo mi resi conto che mi sarei realizzato se avessi seguito le orme di San Camillo: povero tra i poveri, amando il malato con tutto il cuore. San Camillo considerava i malati come i suoi signori, li amava e li serviva secondo l’esempio di Cristo.

R: Poi hai studiato teologia in Togo?

K: No, ho iniziato gli studi filosofici in Benin; ho vissuto il noviziato in Burkina Faso e poi sono tornato in Benin per completare i quattro anni di teologia.

R: Hai avuto una bellissima esperienza in Africa, conosci molte cose sulla situazione in questi paesi cosi pericolosi.

K: Certo!

R: Dopo la laurea in teologia nel 2010 sei stato ordinato sacerdote. Un giovane prete ormai da cinque anni.

034b-CentraficaK: Il mio primo incarico fu in Centro Africa. Il mio superiore mi chiese se volevo andare in un paese dove stava per iniziare un nuovo progetto camilliano. La comunità era costituita da tre sacerdoti: tre giovani religiosi mandati in missione per la prima volta in Africa Centrale.  Sono andato lì, senza sapere se ci fosse stato qualcuno ad aspettarmi. Quando, come parroco, sono arrivato nel piccolo villaggio ho deciso di andare ovunque ce ne fosse stato bisogno.

R: Nella Chiesa hai trovato te stesso, nel bel mezzo di una grande guerra, in una terra divisa da un importante conflitto.

K: Si, un grosso conflitto che non era ancora iniziato quando ho cominciato la missione ma è iniziato circa un anno, un anno e mezzo più tardi. Quando è iniziato ho capito che era necessario allontanarsi ma contemporaneamente era anche necessario stare tra le persone che amavo e che non potevo abbandonare. Ho avuto la possibilità di fuggire, ma loro non avevano nessun posto dove andare.

R: Perché sei rimasto? I vostri superiori, da quello che ho capito vi avevano dato la possibilità di partire, non è così?

K: certo, ma sono rimasto perché io sono un camilliano. Ho scelto di servire i malati a costo della mia vita. In realtà quando ho fatto questa scelta non ne avevo ancora capito del tutto il senso. Ma durante quel periodo di guerra quando il pericolo era vicino ho capito che non potevo abbandonare le persone di cui mi prendevo cura. Successivamente, quando la guerra era ormai iniziata sono diventato direttore dell’ospedale che serviva un’area di oltre 150 chilometri quindi mi resi subito conto che chiudere e abbandonare l’ospedale sarebbe stato terribile per le persone del posto. Posso inoltre dire che San Camillo, il mio fondatore, una persone che amo molto, un Santo che amo molto, durante la peste e la guerra del XVI secolo in Italia dove lui viveva, mentre le persone fuggivano dalle città infette dalla peste, San Camillo e i primi compagni iniziarono la loro opera di assistenza. Quando le persone lo incontravano gli chiedevano “ma perché andate li, tra gli appestati? è necessario scappare!”, lui rispondeva che proprio perché c’era la peste doveva esserci! Si prendeva cura delle persone colpite dalla peste anche quando i suoi amici erano già stati infetti. Allora mi sono detto: ora è il tempo di seguire le orme di San Camillo”.

R: Questa vocazione si sente che è nel tuo cuore, è anche vero però che hai trovato te stesso anche attraverso il rapporto con la popolazione musulmana soprattutto attraverso le cure che hai dato loro e che loro hanno ricevuto da te. Ci spieghi cose è successo in questa comunità, la persecuzione che le persone del posto hanno vissuto e la loro reazione.

K: Dico spesso che è necessario essere razionali, prendere in considerazione da una parte gli estremisti che fanno del male e dall’altra la popolazione civile a maggioranza musulmana. Loro credono nella loro religione, sono musulmani, e in questo non c’è niente di sbagliato. Perciò essendo loro parte della popolazione che può usufruire dei servizi del mio ospedale, li ho accolti come pazienti. Loro non hanno nulla a che vedere con questa guerra. Quando la guerra è iniziata, c’era un gruppo di ribelli, a maggioranza musulmana che era scappato e che opprimeva in nome dei Musulmani.

R: c’era molta sofferenza tra la gente?

K: Si! Soffrono entrambe le religioni sia quella locale che quella Cristiana. Tutti sono perseguitati. Io stesso sono stato minacciato da questi ribelli. Sono venuti nel mio ospedale. Hanno rotto la porta e volevano la mia macchina. Mi hanno bloccato e puntato un’arma sulla testa. Li ho supplicati di lasciarmi vivere.

Il fatto che loro mi avessero ferito non precluse il mio aiuto verso i musulmani: loro non erano coinvolti con questi guerriglieri. La mia preoccupazione è stata quella di accogliere le persone in ospedale e nella missione. Ho accolto tutti i feriti e tutti i musulmani che erano stati minacciati e che si trovavano nelle vicinanze. Li andavo a cercare per portali con me in ospedale. Ho conosciuto donne, bambini e molti handicappati che non avevano l’opportunità di scappare. Li ho trasportati a costo della vita.

KINVIErano tanti, un centinaio di persone. Ricordo che io e il mio confratello p. Patrick ci aiutavamo con la carriola ad ammassare i corpi dei cadaveri e dargli fuoco per assicurare loro una degna sepoltura. È stato un momento difficile ma era necessario farlo, non perché loro erano musulmani ma perché loro erano uomini, creati da Dio, il respiro di Dio è in loro, e Dio li ama. È questo quello che Dio ci ha chiesto e questo era quello che dovevamo fare.

R: Il mondo sta vivendo un periodo molto difficile. Abbiamo appena vissuto i fatti drammatici di Parigi (novembre 2015) rivendicati da estremisti islamici che non possiamo considerare fedeli musulmani. Tu li conosci. È difficile fare una distinzione tra i credenti e quelli che invece non lo sono. Come hai fatto a conciliare queste due situazioni.

K: Parlo solo di quello che so. Nella popolazione che conosco, sono in grado di distinguere chi è estremista e chi non lo è. Gli estremisti li riconosci dalle armi, dalle loro minacce. Capivamo chi era colluso con i ribelli perché minacciava le persone che arrivavano nella zona. Conoscevo i ribelli del presidente Issanabré,  che era di un’altra zona, era un combattente che aveva partecipato a mortali attacchi contro la popolazione non musulmana. La maggioranza di questi estremisti si conoscevano. Il lavoro che ho fatto non l’ho fatto per me stesso. Molti sacerdoti dell’Africa Centrale hanno fatto la stessa cosa, è alto il numero dei preti che ha accolto i rifugiati musulmani nelle loro chiese, nelle loro parrocchie. Molti i cristiani che hanno nascosto i musulmani nei loro campi e che ogni giorno, ogni mattina davano loro un pasto, attraversando la foresta anche per 12 km solo per dare loro cibo e per tenerli nascosti. Questa è stata una sorta di forma di protezione comune. Non abbiamo deciso di farlo in questo modo, ma vedevamo che la situazione era grave e che dovevamo proteggere la vita di queste persone.

R: Tu non stai facendo distinzioni. È necessario aiutare i poveri e i sofferenti: non importa chi essi siano e che religione professino.

K: Non importa chi sono: anche i ribelli arrivavano in ospedale per essere curati.

R: e chi li curava?

K: Quando mi prendevo cura dei ribelli, non volevo sapere da che parte stavano, li consideravo solo persone. Penso sempre che il desiderio di dare amore agli altri è la cosa più giusta. Lanostra presenza in questa zona è molto importante, una presenza che non fa distinzione tra le persone, che mantiene una certa neutralità ma che nello stesso tempo assiste tutti. In questa situazione è fondamentale la regola di comportamento, in questo modo si possono fare bene le cose.

R: P. Bernard, ha usato delle belle parole: amore contagioso. Questo contagio c’è anche nella sua casa. Posso farle una domanda personale?  Vive in mezzo alla paura e alla guerra. Assiste e seppellisce chi muore, si prende cura dei malati. Quali sono le motivazioni che la spingono a fare queste cose? Lei è un giovane sacerdote, ha 33 anni, è stato forgiato al sacrificio. Mi chiedo se avesse previsto quello che era in serbo per lei il giorno della sua ordinazione. Che cosa la spinge ad andare avanti.

K: ci sono – direi tre cose. La prima è Gesù Cristo, sono pazzo di lui, lo amo. Ho deciso di consacrare la mia vita a lui e la mia vita ha iniziato ad avere senso quando ho cominciato a fare quello che aveva fatto Lui. Alla fine della sua vita Gesù ci ha lasciato un singolo comandamento: amatevi gli uni gli altri. Quindi dobbiamo amare tutti come Gesù ha fatto con noi.  L’amore non necessariamente significa “felicità”, ma sicuramente vuol dire amare fino in fondo. Non so cosa è successo. Non voglio pensare a cosa ha in serbo per me il futuro. Voglio amare come Cristo ci ha insegnato: amare i buoni e i cattivi in modo equo. Questa è la mia prima motivazione. La seconda è: credere fermamente nella fede cristiana. Sono convinto che la vita non finisce qui, credo che nella morte rinasceremo di nuovo. Questa speranza della gloria dell’anima a del corpo dopo la morte mi guida. So che se anche morissi durante il mio lavoro io vivrò ancora in Cristo. La terza motivazione è nei miei fratelli e nelle mie sorelle con cui vivo. Ho un fratello, p. Brice Patrique, un padre agostiniano, i religiosi carmelitani che sono con noi nella missione e che fanno uno straordinario lavoro nel modo più prudente. La comunità di fratelli e sorelle di cristiani che sono li. Noi ci aiutiamo, parliamo e ci incoraggiamo a vicenda. sappiamo che gli altri sacerdoti nelle altre parrocchie stanno combattendo per la stessa causa e cioè stabilire la giustizia e la pace attraverso la riconciliazione. È questa la motivazione che ci incoraggia, ci sprona e che spinge me a continuare.

1411551631437R: Il vostro esempio è allarmante, shoccante in un certo senso. Il mondo che stiamo vivendo oggi è pieno di paura e terrore. Basta vedere quello che è successo a Parigi un anno fa. Basti guardare gli attacchi subiti. Allora ci poniamo delle domande sull’Islam e sui musulmani. Ma tu, tu ci stai raccontando qualcos’altro, tu ci stai offrendo un altro esempio: che è necessario instaurare un dialogo. Mi hai spiegato che è necessario creare un dialogo oggi con i Musulmani a dispetto di tutto quello che vediamo fare in nome di Allah. Che non è un grido di morte e terrore ma anzi di riconciliazione con Dio. Perché questo è importante per te e perché lo è per noi?

K: dico a me stesso che queste persone che gridano Allah Akbar, come sinonimo di morte, sono veri musulmani?

R: Vivi ancora vicino ai musulmani, li senti pregare e implorare Allah Akbar, e cosa provi quando lo senti?

K: Per me è solo una comunità di persone che vive la loro vita e la loro religione, credono in Dio. Penso che il Dio a cui loro credono sia lo stesso in cui crediamo noi. I musulmani che ospito in casa sono persone che, per esempio, quando vengono per le cure in ospedale dicono: “oggi non ho soldi. Curami, ti porterò il dovuto, domani tornerò per pagarti”. Tornano sempre per onorare i loro debiti. Vedo l’onestà in loro ma non negli jihadisti, non so se questi sono dei veri musulmani so che ci sono molti musulmani che soffrono perché questi altri che usano la loro stessa religione e il loro stesso Dio per fare del male. Cosa possiamo fare per loro che soffrono come soffriamo noi?

Ci sono molte persone in questo paese. Molti sono i musulmani che soffrono per questa situazione, perché la comunità usa il loro nome e il loro Dio per fare del male. Dall’altra parte la generalizzazione provoca il rigetto/rifiuto dalla comunità. Bisogna veramente dividere le situazioni per trovare un senso e amarci veramente e giustamente l’un latro. Il rifiuto di queste persone dalla nostra società si sta radicalizzando ancora di più.

R: La tua risposta a tutte le sofferenze generate dall’abuso del nome di Dio è quella di rispondere con l’amore, la carità e la misericordia

K: Certamente. È così ovvio e importante. Molte persone, lo dico di nuovo, ricorrono alla radicalizzazione solo perché si sentono rifiutati. La risposta non deve essere la forza come abbiamo fatto fino ad adesso ma piuttosto è necessario l’amore! Dobbiamo trovare rapidamente una soluzione per quelle persone che noi rifiutiamo.

R: La figura, la presenza, il sorriso e le parole di Papa Francesco. Cosa ha dato al paese dove lavori con i tuoi fratelli, con le persone che insieme a te si prendono cura degli altri. 

K: Attualmente viviamo in una situazione precaria ma ogni paese è impaziente di ospitare il papa, nel rispetto del suo programma vorremmo riunire Cristiani, Musulmani e non musulmani insieme. Tante sono le persone che aspettano di vivere un periodo di riconciliazione e di pace, molte sono le persone che aspettano il suo arrivo come una sorta di benedizione. La sua presenza è espressione simbolica della benedizione di Dio per tutti gli uomini e donne uccisi dalla guerra e dalle divisioni.

R: Cosa rappresenta per te papa Francesco

K: Il papa mi ha aiutato a mettere a fuoco quello che dicevo in precedenza riguardo il proposito della mia missione: l’amore. Amore e amore.

R: P. Bernard ho capito perché Human Right Watch ha deciso di premiarla e sono convinta che questo premio non è solo suo ma è di tutte quelle persone che si prendono cura degli altri nel nome di San Camillo de Lellis e anche nel nome di Gesù che ci ha mandato te. Per noi è un privilegio, un onore una grazia e una benedizione averti qui con noi.