Breve contestualizzazione storico-culturale della vita e dell’opera di Camillo.
La cultura dell’Umanesimo, già affascinata dall’esaltazione dell’individuo, dalla scoperta del globo terrestre (1492 in avanti) e delle grande opere d’arte, vive il trapasso dall’euforia rinascimentale alle tensioni e crisi del Barocco, mentre con la nuova scienza di Copernico e Galileo insieme con la terra, anche l’uomo scopre di non essere più il centro dell’universo. In campo sanitario-assistenziale la chiesa continua ad offrire i suoi ospedali, come aveva fatto nel Medioevo con la costruzione degli Hotel Dieu, e ad animare associazioni caritative popolari come le confraternite delle Misericordie.
Tuttavia accanto a questa enfasi edilizia e al fasto del decoro artistico facevano da contrasto le vistose lacune nel campo dell’igiene, le inadeguatezze delle cure e soprattutto le gravi carenze dell’assistenza. Questa era affidata molto spesso a persone impreparate, gente che si faceva assoldare per sbarcare il lunario o che a volte era costretta a questo lavoro in sostituzione della pena carceraria. Ai tempi di Camillo, a Roma come altrove, l’ospedale era un estremo rifugio per i disperati. Mentre infatti le persone abbienti potevano usufruire del medico privato (archiatra) nelle loro residenze, all’ospedale affluivano poveri di ogni genere, abbandonati o vagabondi, e una marea di contagiosi – gl’incurabili – rifiutati dalla società.
La società rinascimentale li ignorava, li riteneva gli ultimi e gli emarginava. Conseguenza drammatica della cultura umanistica che, come si sa, esaltava “l’uomo” come essere eccellente e centro dell’universo. Ma a quale uomo mirava? L’uomo ideale, l’uomo eccezionale: l’uomo geniale, l’artista creativo, il principe forte ed astuto, l’invitto capitano di ventura, lo scopritore di nuovi mondi. Un’élite aristocratica, anticipatrice del superuomo.
In questo mondo culturale il poveraccio senza prestigio e senza potere, e per di più malato o malandato, non trovava alcuna considerazione. Camillo, come si vedrà, scopre questo uomo, anzi ne va in cerca, scopre che costui è un uomo a pari dignità di ogni altro uomo. Dopo la conversione vorrà servire Dio proprio in questo uomo e dedicandosi a tutto l’uomo nella consapevolezza, anticipatrice della modernità (medicina olistica, diritti del malato, …), che l’uomo malato entra in ospedale con tutto se stesso: il povero porta i suoi quattro stracci ma anche il suo spirito libero e immortale.
Camillo, figlio che amava il suo tempo e quindi anche contestatore del suo tempo, cerca di trasformare l’ospedale in una “casa”, ma non fu facile: «Si doleva di vedere …» ripete il cronista-biografo di Camillo, come in un’amara litania, descrivendo il suo primo approccio all’ambiente deprimente e disumano che costituiva la realtà sanitaria di allora.
Il suo ardore di “opere e carità” è nato dalla scoperta della dignità dell’uomo, soprattutto dall’aver visto nel malato “la persona stessa del malato …, pupilla e cuore di Dio …, il suo signore e padrone”. Questi principi detterà Camillo alla società
e alla cultura del suo tempo: non dal pulpito o da una cattedra universitaria, ma dall’ospedale, da quell’ospedale del suo tempo in cui era entrato anche lui come “incurabile” per una piaga alla gamba che mai si rimarginerà. Quella piaga determinerà, come vedremo il corso della sua vita. Di quella si servì Dio per indicargli la strada.
Intorno alla festa dell’assunta del 1582, Camillo de Lellis, Maestro di Casa all’ospedale S. Giacomo agli Incurabili in Roma (dove era già stato ricoverato per una misteriosa piaga alla gamba, rivelatasi poi inguaribile), venne per così dire folgorato dal pensiero di «istituire una congregazione di uomini pii e da bene, i quali avessero per istituto d’aiutare, e servire non per mercede ma volontariamente, e per amor d’Iddio, con quella carità e amorevolezza, che sogliono far le madri a loro propri figlioli infermi».
La sfida e la risposta. Aveva allora trentadue anni, essendo nato a Bucchianico, nei pressi di Chieti, il 25 maggio 1550. Da quel momento il pensiero occupò totalmente la vita di Camillo de Lellis. Aveva alle spalle un passato di soldato di ventura. La sua giovinezza era stata caratterizzata da una sfrenata, quasi ossessiva, passione per il gioco. Dopo essersi venduto perfino i vestiti, si era ridotto a chieder l’elemosina (affidandosi alla carità altrui) “con infinito suo rossore”, con il cappello in mano, alla porta della chiesa di San Domenico in Manfredonia. Lui stesso in punto di morte (14 luglio 1614) riconoscerà di essere stato “gran peccatore e huomo di mala vita”. La passione del gioco verrà debellata con la nuova passione, implacabile: il servizio degli infermi, riscattato dalla trascuratezza, dai maltrattamenti, dalla disumanità, perfino dalla crudeltà. Per l’attuazione del suo progetto, Camillo dovette lottare con opposizioni di ogni genere. Ma lui, abruzzese, teneva a disposizione, oltre al resto, un temperamento ostinato, una capacità di sacrificio e di dimenticanza di sé che ha dell’incredibile
Il cardinal Salviati lo definì testa ferrata. Il Baronio, che pur lo ammirava, lo considerava intrattabile. In realtà la sua era la testardaggine del cuore, più che del cervello, ma coinvolgeva tutta la persona. Ed era non qualcosa di statico, ma una realtà dinamica, un pensiero-seme, insomma, che si sviluppava, si spingeva in territori impensati, aveva sbocchi imprevedibili, conduceva a traguardi impensabili. La nuova “famiglia religiosa”, fin dal suo nascere sarà sempre impegnata alle frontiere più rischiose della miseria degli uomini. Calamità, pestilenze, carestie: i Padri della Croce rossa stanno abitualmente in prima linea, soprattutto quando c’è da giocarsi la vita, come nei casi di peste. E sempre il fondatore un po’ più avanti di tutti, talvolta anche troppo avanti, difficile per molti tenere il suo passo incredibile. La sfida dell’impossibile (malati abbandonati a se stessi, in un panorama obiettivamente di difficile miglioramento umano e sanitario) che nessuno aveva voluto accettare, la raccolse un laico, Camillo de Lellis, in quell’afosa sera di un mezz’agosto del 1582 nella corsia dell’ospedale di S. Giacomo degli Incurabili.
Breve excursus al contesto storico-sanitario agli albori dell’opera di Camillo: la situazione degli ospedali romani, sullo scorcio del XVI secolo, era diventata insostenibile. Gli ospedali erano una gloria della Chiesa di Roma, e tra essi emergeva, per storia ed importanza, l’ospedale di Santo Spirito, la cui fondazione risaliva a Innocenzo III nel 1198; venne poi riedificato e ammodernato nel 1471 con sontuosa magnificenza da Sisto IV perché potesse continuare ad essere Christianae caritatis gymnasium, come si legge ancor oggi in una scritta all’interno dell’ospedale. Ma dalla seconda metà del 1550 le cose cominciarono a funzionare molto diversamente dalle intenzioni dei pontefici: Bernardino Cirillo, commendatore dell’Ospedale dal 1550 al 1574 così descrive la situazione: «il servizio è pessimo et abbominevole; svolto da tutta indiavolata gente anormale, et tra di loro sia maledetto il buono, et si mezza parola hanno di mala satisfazione o ti piantano o ti rubbano». Ne giova cambiarli, perché spesso si va di male in peggio, e «crearli da putti e farne un seminario, ci vuol troppa fattura e troppa spesa». Anche a pagarli non serve. Non c’è retribuzione che basti a convincere costoro a «votare i pitali» dei malati.
«Servi buoni per l’ospedale – scrive ancora con una punta d’ironia ai suggerimenti di qualche pacifico prelato di curia – non si possono cavare né dallo studio di Bologna né dalle corti dei cardinali (…), non si incontrano alle fiere e sui mercati. Se qualcuno me li sa trovare, me li porti che io gli pagherò la senseria».
Se la salute dei corpi era curata così male, la salute delle anime non aveva sorte migliore: anch’essa era molto trascurata per il fatto che «erano così aborriti e abbominati detti luoghi da gli huomini di qualche conditione ch’appena si ritrovavano sacerdoti che vi volessero stare ne anco per buona e grossa mercede che fusse loro offerta. Onde più delle volte (massime in tempo di peste, o d’altro mal contagio) erano forzati i rev.mi Vescovi servirsi a questo effetto della feccia del mondo, cioè di Ministri ignoranti, banditi o d’alcun delitto confidandoli per penitenza e castigo dentro li suddetti luoghi. Dal che avveniva che per starsi quelli forzatamente o vero per la sola mercede ci stavano di mala voglia con poco o niente giovamento dei poveri». «Gli agonizzanti mancano di assistenza religiosa e le loro anime raccomandate a Dio da un solo sacerdote presente nello stesso ospedale perché condannato dal Santo Officio dell’Inquisizione».
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