La sfida della non-rassegnazione
Quello che avvenne nella tarda sera del 15 agosto 1582 (festa dell’Assunzione di Maria) fu lo sbocco naturale di questo itinerario. Leggiamo l’avvenimento nella vivace descrizione del primo biografo di Camillo. «Ritrovandosi dunque Camillo nel suddetto stato di Maestro di Casa, cresceva ogni giorno più in lui la charità verso gli infermi del suo hospedale … Sovra tutto haveva grandissima compassione del patir che solevano tal volta fare per conto di serventi mercennarij, particolarmente quando essendo chiamati di notte non rispondevano, ne correvano ad aiutargli, pensando di non essere visti da nessuno. Ma lui più delle volte vigilando à posta fra letti d’essi infermi, ovvero sentendoli dal suo camerino chiamare vi correva subito lui, riprendendo poi aspramente i serventi, sottraendogli anco il cibo per penitenza. E con tutto che detti huomini mercennarij fussero tenuti da lui così vigilanti, nondimeno pur s’accorgeva che non procedendo quella loro servitù, da vero amore, ma solamente da mercede, spesso al debito loro con detrimento de poveri mancavano. Stando dunque egli una sera il tardi (che poteva essere un’ora della notte) nel mezzo dell’hospedale soprapreso da queste considerazioni gli venne il seguente pensiero. A tale inconveniente non si poteva meglio rimediare che con liberare essi infermi da mano di quei mercennarij et in cambio loro instituire una Compagnia d’huomini pij e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor d’Iddio gli servissero con quella charità et amorevolezza che sogliono far le madri verso i lor proprij figliuoli infermi».
Potrebbe sembrare un racconto all’apparenza molto intimistico e personale. In realtà segna una svolta carica di nuove motivazioni, di speranze e di concrete applicazioni non solo per l’ospedale di S. Giacomo, ma per l’orientamento di tutta l’assistenza agli infermi.
Vediamo insieme gli sviluppi di quanto avvenne in quella lontana notte di mezzo agosto.
Il coraggio della non-rassegnazione. Camillo, anzitutto, ci appare un uomo niente affatto rassegnato alla situazione dell’assistenza che a molti, ai più, sembrava ormai irreversibile. Pur nella consapevolezza dei propri limiti – e lui stesso in seguito li sottolineerà sovente – appare un uomo determinato a far qualcosa, a rompere con il sistema, ad andare controcorrente, un uomo deciso a tutto pur di riportare l’assistenza dei suoi infermi agli imperativi della carità evangelica. È il coraggio della novità non facile a manifestare e ad attuare quando di fronte c’è la gente che conta e che, con tutta probabilità, come di fatto poi avvenne, non condividerà le iniziative e si opporrà con la forza dell’istituzione.
È il coraggio della non-rassegnazione al degrado e all’ingiustizia che nell’ospedale colpiva inevitabilmente i più deboli (nella consapevolezza che i diritti dei deboli non sono diritti deboli), i malati, e che si traduce in lui nel coraggio di rischiare lo spazio della propria tranquillità e, forse, della propria onorabilità. Camillo, Maestro di Casa, ha un ruolo e una posizione invidiabile, un alloggio e uno stipendio assicurato dopo tanto vagabondare da un esercito all’altro, un buon livello nella carriera amministrativa e strade aperte a più alti traguardi. Tutto questo viene giocato con lucida determinazione nella certezza che la carta vincente per la sua vita e per i suoi malati è un’altra: quella che ha scoperto in una fredda mattina di febbraio nell’ormai lontano 1575 sulla strada che tortuosa scende da S. Giovanni Rotondo a Manfredonia e che gli fece esclamare: «Che gran cecità è stata la mia a non conoscere prima il mio Signore? Perché non ho io speso tutta la mia vita in servirlo?». È questo il momento in cui Camillo comprende che la sua vita per essere impegnata e spesa per il Signore, va impegnata e spesa per i suoi ammalati, per la difesa della loro dignità, per ridare ad essi il calore d’una casa perduta. Questa motivazione di fede è l’asse portante su cui costruisce la sua iniziativa di cambiamento.
Dall’idea del “cavaliere solitario” a Fondatore con un rinnovamento collegiale. Il secondo aspetto è l’affiorare in modo imperioso del bisogno di uscire dall’isolamento. Sino a quel momento Camillo poteva apparire come un cavaliere solitario che s’era proposto di riportare il mondo – il mondo del suo ospedale – sulla linea della correttezza e della giustizia. Il suo impegno era stato notevole e assiduo: sorveglia, ammonisce, castiga, ma i risultati sono stati assai scarsi. Ora comprende che ci vuole qualcosa di nuovo: occorre creare un movimento che coinvolga la parte migliore del personale, la più disponibile ad un rinnovamento. È necessario istituire una Compagnia di uomini onesti e profondamente religiosi, con la presenza della quale, qualificata e decisa, si potesse condizionare positivamente anche la struttura e l’istituzione, ma soprattutto quella parte del personale che Bernardino Cirillo apostrofava come tutta «diavolata gente». Questo processo di “dare un’anima” e di promozione umana non poteva logicamente essere opera di uno solo. Camillo, forte di una deludente esperienza, lo comprende molto bene. Di qui la sua intuizione – ispirazione divina! – di rivolgere l’invito ad altri ad una collaborazione, per organizzare una forza d’insieme mettendo in comune capacità, braccia, mente e, soprattutto, amore (cinque persone: il guardarobiere, un infermiere specializzato, il dispensiere, un infermiere generico, il cappellano dell’ospedale). La presenza di questo gruppo di Camillo deciso al cambiamento diede uno scossone ai vecchi e inadeguati sistemi d’assistenza in vigore nell’ospedale, tanto che «i Signore Guardiani havendo fatto chiamare Camillo come capo de gli altri, et inventore di quella novità, gli proibirono espressamente che mai più si congregassero insieme». Per Camillo questo fu il segnale di essere incamminato sulla buona strada. E continuarono imperterriti sorretti da un ideale e dalla riscoperta delle motivazioni di fede che avevano guidato il cammino della carità nei secoli.
La conversione di Camillo, nella quale sperimentò in tutta la sua dismisura la misericordia di Dio, segnò un recupero di valori mai vissuti in profondità e un inizio di altre conversioni che fecero di lui un religioso e persino un fondatore di una nuova forma di vita religiosa. Le sue conversioni sono legate alla sua vita personale ma anche alla sua missione di fondatore. Ne possiamo ricordare cinque più determinanti, vere illuminazioni che segnarono svolte nella sua vita e nella storia del nascente Istituto.
I conversione: Camillo si converte a Dio, conosciuto come Amore. È la prima esperienza vera di Dio: una conoscenza profonda e trasformante. Avvolto nella luce e nell’amore del Padre, Camillo esce in questo lamento: «che grande è stata la mia cecità; perché non ti ho conosciuto prima, Signore?». E chiede tempo per vivere nella luce della verità. Ricorda le promesse passate, fatte con velleità e presto dimenticate, e le rinnova con serietà e risolutezza.
II conversione: Conosciuto Dio, Camillo conosce l’uomo, immagine viva del Dio vivente. Servendo l’uomo che vede, serve a Dio che non vede. In qualunque luogo dove c’è un malato, lì è luogo di culto. Il letto del malato diventa l’altare intorno al quale egli svolge la liturgia del servizio, attento e amorevole.
III conversione: Camillo impara a rispettare il cammino e la libertà degli altri. Come accade a molti convertiti che sono tentati di intolleranza, Camillo non riusciva a capire che gli altri inservienti dell’ospedale non servissero i poveri malati con la dovuta prontezza e diligenza. Esigeva da loro quel servizio che lui, con la sua luce, vedeva come normale dovere. Ma ecco che intorno alla festa dell’Assunzione ebbe un’altra illuminazione: invece di obbligare gli altri a fare come lui, perché non riunire i pochi uomini buoni e aperti allo spirito, che pure c’erano in ospedale ma lavoravano dispersi e quasi persi fra gli altri?
IV conversione: Camillo impara a seguire il disegno di Dio accettando la croce e vivendo in pace anche nel conflitto. Di fronte all’esperienza mistica del Crocifisso, simile alla prima conversione nella Valle dell’Inferno, Camillo ha compreso tre cose: 1. L’opera è di Cristo, non sua; 2. Vai avanti senza paura; 3. Io sarò con te. Da quel momento Camillo si è scatenato. Nessuno lo poteva più frenare quando si trattava dell’opera del Crocifisso. Era Cristo stesso che continuava a soffrire nei malati nei quali doveva essere amato e servito con assoluta priorità.
V conversione: Camillo si converte alla necessità degli studi. Pressato dalle necessità dei malati e costatando il bene che il servizio dell’Istituto faceva loro, guidato dalla sapienza e intuizione della carità, Camillo non riusciva a capire perché si dovesse perdere tanto tempo prezioso con gli studi. Poi prevedeva che gli studenti, una volta preparati, finissero per privilegiare confessionali e pulpiti alle corsie e ai letti dell’ospedale. Dopo tante lotte e intransigenza nella questione degli studi, Camillo ebbe una nuova illuminazione circa la convenienza e la necessità di corsi di teologia, filosofia e ogni altra sorta di studi: «… tutte le scienze convengono e sono più necessarie alla nostra religione che alle altre (istituti) … e in particolare molte volte occorrono casi d’eresia e tentazioni di fede agli infermi e morenti e talvolta gli infermi saranno dotti e persone letterate, che se i nostri non saranno dotti e letterati non li potranno aiutare conforme ai bisogni di quelle anime …».
Vocazione e missione. Era un piccolo gruppo fortemente integrato e motivato per aver riscoperto che al degrado dell’assistenza si poteva rimediare solo con la forza dell’amore. Prima di tutto era necessario tornare ad amare quel lavoro duro e sacrificante che, compiuto com’era compiuto, dava poco spazio alla gratificazione personale; tornare, quindi, ad amare l’ospedale come centro d’interesse vitale delle propria esistenza, dove poter far piena la propria identità di uomo e di cristiano; tornare ad una idealità del servizio che, senza essere disinteresse per le proprie necessità umane e familiari, facesse però recuperare ad un lavoro così delicato, ma tante volte opprimente, il concetto di vocazione e di missione. E infine tornare ad amare il malato, visto nella sua globalità di anima e di corpo e nella sua vera dimensione di uomo.
Questa piccola comunità di persone, però, subito intuì che il vero volto dell’uomo, la vera dimensione della sua dignità e della sua preziosità, sotto qualsiasi piaga e sotto qualsiasi veste, poteva essere riscoperta soltanto fissando lo sguardo sul volto di Cristo che era stato presentato alla gente con le parole «Ecce Homo!». Per questo vediamo subito il gruppo raccolto attorno al Crocifisso. Nella contemplazione del Crocifisso le piaghe di Cristo si confondono e si unificano con le piaghe «de li poveri infermi dell’hospedale», l’abbandono di Cristo sulla croce si traduce per essi nell’abbandono dei malati nel putridume dei letti del S. Giacomo, senza neppure una «Mater dolorosa» accanto. Per questo motivo questi uomini, rudi uomini provenienti da varie esperienze, si propongono di servire Cristo, piagato, sofferente, abbandonato nella corsia dell’ospedale, di cui il malato diventa sacramento, segno visibile ed eloquente della sua presenza.
Questa fondamentale motivazione di fede che si esprime nel dettato evangelico: «Ero infermo e mi avete visitato» (Mt 25,36) diventa la forza irresistibile del gruppo; in questa visione riaffiora il nuovo umanesimo, il vero, di cui saranno portatori nei maggiori ospedali d’Italia da Roma a Napoli, a Bologna (terza fondazione in ordine di tempo, dopo Roma e Napoli), a Palermo, a Genova, a Milano, a Ferrara.
Era la riforma dell’assistenza che, nella comunità della rinnovata tradizione della carità cristiana, si metteva in cammino e progrediva secondo le indicazioni dei * segni dei tempi (attenzione sensibile all’uomo e alla storia, ad una trascendenza che informa la storia) e il * soffio dello Spirito (attenzione a Dio che opera nella storia, non in modo deterministico, ma coniugandosi con la verità e la libertà dell’uomo).
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